di Alessia Zuppelli
Custodi delle tradizioni, Andrea e Simone Foti hanno respirato il profumo del vino fin dalla giovanissima età.
Un cognome importante il loro, sul territorio etneo. Figli di quel Salvo avanguardista pioniere della produzione di qualità dei vini dell’E.tna, i fratelli Foti hanno intrapreso da pochissimi anni una produzione “Off” tutta loro: “Abbiamo avuto la fortuna di trovare un piccolo appezzamento di vigna, circa mezz’ettaro, a 1010 metri sul livello del mare in contrada Tartaraci Soprano nel territorio di Bronte. Qui siamo rimasti colpiti dalla bellezza di viti che hanno vissuto e raccontano ancora oggi la grande espressività territoriale del vulcano”, dichiarano. Con alle spalle studi in enologia e viticoltura, Andrea e Simone pongono l’accento sull’Etna come terroir, sul valore di quella memoria del passato dal sapore ancestrale: “Oggi la più grande difficoltà non è scrivere nella bottiglia la denominazione, ma coltivare, restaurare le vecchie vigne dando loro nuova vita. Non basta acquistare una vigna vecchia e produrre un vino, è necessario impiantare le nuove viti, restaurare e rendere bello ciò che le circonda. Questo crediamo sia il primo obiettivo. Il mio impegno e quello di Andrea – dice Simone è parlare di Etna a prescindere dalla Doc e raccontare le varie sfaccettature del vulcano, creare collegamenti con il passato, con la tradizione e cercando di dare nuova vita e nuove radici a vini etnei”.
Di vitigni e tradizioni, territori e sperimentazioni i due giovani vignaioli approfondiscono la loro dettagliata e personale visione, tenendo comunque sempre bene in mente gli insegnamenti e gli studi del padre, il quale già in tempi non sospetti aveva già colto quelle sfaccettature che oggi appaiono come novità. Ma cosa vuol dire per voi produrre vino fuori dalla Doc Etna? “Crediamo fortemente nel valore della Doc Etna e il lavoro che si sta portando avanti con le contrade e le sue differenze microclimatiche, di esposizione, altimetriche e di terreno – spiegano i due fratelli – Abbiamo avuto la possibilità di riscoprire vitigni come il Grenache e il Grecanico a “Croce” tipici del versante Nord- Ovest e su questi stiamo investendo dando nuova “linfa”. Questi per la nostra azienda non sono argomenti recenti, più di vent’anni fa mio papà aveva studiato e scritto su questa particolare zona dell’Etna nel 2011 (Etna I Vini del Vulcano) per poi acquistare una vigna dalla quale venne prodotto il nostro primo Vinudilice nel 2007. Pur essendo fuori Doc, tutto questo fa parte della storicità e tradizione dell’Etna. Le viti ultracentenarie ne sono la dimostrazione. Per questa ragione il Grenache (Alicante), al pari del Nerello Mascalese e Cappuccio, dovrebbe essere considerato in virtù della sua ultracentenaria coltivazione sull’Etna, un vitigno autoctono, al pari del Cannonau in Sardegna. Dalla nostra vigna in contrada Tartaraci Soprano è nato un vino che si chiama Radica (radici), Grenache 100%, che esprime proprio il nostro legame con l’Etna. Le nostre radici, come per la vite, appartengono a questo territorio che vogliamo rispettare e valorizzare. Oggi la produzione è di sole circa 1.300 bottiglie, che speriamo, nei prossimi anni, di incrementare”.
Quali caratteristiche distinguono “Radica” da altri vini dell’Etna?
“Vi è una differenza macroscopica: il vitigno. Nella zona a Doc il Grenache, spesso presente nelle vecchie vigne, anche a bassa quota, in questo versante nord-ovest, oltre i mille metri, diventa il vitigno a bacca rossa più diffuso e quindi facilmente vinificabile in purezza. In vigna è presente anche del Grecanico che al momento non vinifichiamo in purezza. Oltre il vitigno, la particolarità è anche nello stile di vinificazione. Radica è prodotto vinificando le uve con fermentazione semi-carbonica. Le uve vengono diraspate e poste ad acini interi in dei vecchi tonneaux aperti per circa una settimana, che vengono poi sigillati. Dopo una settimana circa si svolge la pressatura degli acini parzialmente fermentati, la fermentazione si completa in serbatoio di acciaio, al fine di preservarne la purezza e la bevibilità: è uno stile d’oltralpe che a noi piace tanto”.
Cosa vi affascina del nord ovest del Vulcano?
«È una zona particolarmente selvatica, incontaminata, dove il nero delle colate laviche si confonde con il verde delle querce (leccio), delle vigne e degli alberi da frutto. In queste zone l’agricoltura è ancora di tipo ancestrale. È difficile trovare la monocoltura, che si è imposta negli ultimi 60 anni in quasi tutta la Sicilia vitivinicola. Le vigne sono dei giardini in cui convivono diverse colture ricche di biodiversità. Sicuramente questo è quello che più ci attrae di questo territorio. Chi ha avuto modo di visitare la nostra “Vignabosco” sita in contrada Nave ad oltre 1.200 metri sul livellod el mare può ben capire”.
Da quale idea nasce invece la referenza “Palmento e Anfora”?
“La sintesi del Palmento e Anfora rappresenta per noi la continuità produttiva etnea del passato che deve vivere e raccontare oggi e domani, secondo la nostra visione, il vero vino etneo. È prodotto con uve Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio coltivate in contrada Calderara e vinificato nel nostro Palmento del 1840 a Milo. Struttura che ancora usiamo per la tradizionale vinificazione. Studiando e usando il Palmento crediamo che questo possa ancora oggi essere un sistema funzionante e dare una maggiore identità e unicità al nostro territorio, oltre che essere un perfetto e vero esempio di produzione sostenibile basato su l’uso della forza di gravità, sullo sfruttamento delle correnti freddi che arrivano da Nord per condizionare naturalmente la cantina e sulla sapienza e maestranza etnea nel saper mettere in funzione il vecchio torchio. La fermentazione è svolta nelle vasche di pietra lavica ricoperte di coccio pesto che noi stessi produciamo utilizzando calce idraulica, sabbia dell’Etna e terracotta: questo ci permette di non usare nessuna resina epossidica o vetroresina, cioè plastiche chimiche, che entrano inevitabilmente a contatto con il vino. Dopo una macerazione di circa una settimana sviniamo e usiamo la “Chianca” cioè il vecchio torchio ancora funzionante. Ricollegandoci al passato e alla tradizione siciliana della terracotta abbiamo deciso di affinare il vino nelle Anfore interrate che ci aiutano a svolgere una conservazione naturale a temperature adeguate”.
Avete sperimentato, come vostro padre, anche altri vitigni internazionali all’interno dell’Etna Doc?
“Papà, già dall’inizio del 2000 aveva studiato e impiantato una vigna sperimentale in contrada Nave. Da questo vigneto produceva il Vinujancu. I vitigni impiantati, essendo la zona fuori Doc, data l’altitudine e il particolare clima continentale, erano tutti provenienti dal nord Europa e a bacca bianca. Alcuni anni fa, con Andrea abbiamo pensato di riproporre un piccolo impianto di circa 700 viti a Milo in contrada Caselle puntando su quei vitigni quali lo Chenin Blanc della Loira, il Riesling renano, il Gewurztraminer, il Pinot Blanc e il Savagnin dalla Jura.
Crediamo che il clima “continentale” spesso estremo in termini pedoclimatici di Milo, a quota di oltre 700 metri sul livello del mare, si sposi beni con questi vitigni. È nato cosi il “Primavera” un blend di uve sperimentali e Carricante, vitigno principe dell’Etna Bianco Superiore nel territorio di Milo. Dalla nostra “Prima Vera” produzione sono nate circa 600 bottiglie che hanno destato molto interesse da parte dei consumatori. Siamo molto contenti del risultato ed è probabile che investiremo al fine di aumentare, nei prossimi anni, la produzione di questo vino. Con Andrea, ci piace molto, data la nostra passione per questo lavoro e il nostro percorso di studi enologici, sperimentare e studiare il nostro territorio e i suoi cambiamenti, oltre ovviamente alla storia e tradizione vitivinicola etnea. Desideriamo mantenere e custodire le tradizioni avvalendoci della ricerca e delle innovazioni, che ci consentono di adeguarci al profondo cambiamento che contraddistingue il nostro tempo”.
Crediate che in futuro possa nascere un’ulteriore denominazione Etna? Quale futuro in generale per questo territorio?
“Allargare i confini della Doc credo possa solo creare speculazioni economiche, dati i prezzi più bassi di questi terreni rispetto la zona Doc. Oggi per fortuna, è possibile produrre, comunicare e vendere un vino senza la denominazione in etichetta. Sicuramente la denominazione ha un valore fondamentale perché ti permette l’identificazione con un territorio in bottiglia. Nel lungo tempo la denominazione, se rispettosa del territorio e della sua reale natura, raggiunge un valore incredibile. Da questo punto di vista crediamo che Barolo o la Borgogna possano essere per noi un grande esempio del vino artigiano».
LEGGI QUI L’INTERVISTA A MIRELLA BUSCEMI