Dal caso Sicilia alla Sardegna. E poi la “guerra fredda” tra Chianti e Chianti Classico. E il ruolo vigile del ministero. Fatto fisiologico o malessere crescente?
di Fabrizio Carrera
Ma l’eccessiva conflittualità in nome delle doc è un sintomo di malessere? Ci sembra che il vino italiano sia sempre più diviso tra voglia di business e identità da difendere. Magari è un fenomeno fisiologico con cui abbiamo sempre convissuto e non ce ne siamo mai accorti. Però registriamo segnali di guerra crescenti. Eppure se poi guardiamo i numeri quello delle denominazioni italiane del vino, tra Doc, Docg e Igt, è un mondo a due velocità. In Italia ci sono ben 525 denominazioni, di cui 334 Doc, 74 Docg e il resto Igt, un record mondiale che suggella la grande biodiversità italiana. Ma ad osservare bene, come sanno gli addetti ai lavori, a funzionare davvero sono al massimo un discreto venti per cento di denominazioni. Che da sole rappresentano più dei tre quarti dell’intera produzione certificata. Forse già il malessere parte da lì.
Certo è che in questi mesi i giornali di settore (e non solo, ci sono state pure paginate del Corriere della Sera) sono stati costretti ad occuparsi di ricorsi, interrogazioni parlamentari, interventi del ministro, cause pendenti al Consiglio di Stato, guerre fredde su tipologie di vino e nomi di vitigni. L’ultimo caso in ordine di tempo ha riguardato alcune denominazioni sarde. Quella che noi di Cronache di Gusto abbiamo definito “la guerra del Vermentino”>. In sintesi: la Regione Sardegna modifica il disciplinare per consentire l’uso del nome del vitigno (il Vermentino ma anche il Carignano) nelle etichette a marchio Igt Terre dei Nuraghi. E parte il braccio di ferro. Produttori divisi. Alcuni consorzi di tutela che si compattano contro la Regione. Un ricorso al Tar. E dopo otto mesi la sentenza che dà ragione all’associazione dei produttori Igt Terre dei Nuraghi che potranno continuare a usare nelle etichette alcuni dei nomi dei vitigni più importanti dal punto di vista commerciale per l’isola.
Quello sardo è solo il caso più recente. Ma in questi ultimi mesi sono scoppiate altre guerre. Quella del Primitivo e dei pugliesi che si sono spaventati all’idea che i siciliani oltre a produrlo potessero inserirlo in etichetta; oppure quella del Consorzio del Chianti che a novembre in un’assemblea ha deliberato la possibilità di produrre vini nella tipologia Gran Selezione, proprio come i cugini del Chianti Classico che l’hanno avviata sei anni fa con risultati commerciali sorprendenti. Al momento il consorzio presieduto da Giovanni Busi non è andato avanti nella decisione. Ma i vertici del Gallo Nero erano pronti a reagire a quella che in tanti hanno definito un vero e proprio atto di guerra. In ballo c’è una tipologia che rappresenta il 6 per cento delle 35 milioni di bottiglie prodotte in Chianti Classico ma che in valore oggi è uno dei fiori all’occhiello di tutto il territorio.
Poi c’è il caso Doc Sicilia, il più spinoso per vari motivi: non solo perché dal punto di vista giudiziario è già approdato al Consiglio di Stato, ma anche perché tocca un punto nevralgico dell’impalcatura con cui sono nate alcune Doc italiane; perché divide un marchio storico e prestigioso come Duca di Salaparuta (da quasi vent’anni di proprietà della Illva di Saronno) e un consorzio di tutela tra i più dinamici e carichi di prospettive come la Doc Sicilia che oggi mette sul mercato circa cento milioni di bottiglie e sta sfruttando le potenzialità enologiche e commerciali di una regione che sino a una manciata di lustri era famosa per la vendita di sfuso.
Ovviamente gli attori in campo sono tanti. Il ministero che è lì a svolgere un ruolo vigile, quasi sempre è tirato in ballo, preso per la giacchetta, chiamato a prendere posizione. Quando in realtà il pallino è sempre in mano ai produttori e ai vertici che loro eleggono. Sono loro che determinano le scelte, le strategie e quindi il livello di conflittualità.
Quello della Doc Sicilia è il caso più spinoso perché comunque vada a finire lascerà una ferita aperta e un certo malumore in un mondo produttivo che non si è mai del tutto compattato attorno ad una unica visione. In tutti questi casi di conflittualità, ma più marcatamente in Sardegna e in Sicilia tra consorzio Doc e Duca di Salaparuta, è mancato un certo dialogo. Parlarsi fa sempre bene. È probabile che non sia accaduto. O non sia bastato. Chi governa il vino, i territori e i produttori deve indossare molto spesso i panni del diplomatico e ricorrere a toni concertanti. In Sicilia bisognava evitare che si arrivasse al punto che un’azienda potesse fare un ricorso così gravido di conseguenze contro un consorzio intero. Chi ha la governance doveva giocare di tatto e di tattica. Ma la diplomazia è come il coraggio. Se uno non ce l’ha non se la può dare. Senza pensare che questa conflittualità fa felice gli studi legali. Una volta Barack Obama, l’ex presidente degli Stati Uniti, ebbe a dire che il suo sogno era un Paese, il suo, con meno avvocati e più ingegneri. Non me ne vogliano le toghe d’Italia ma credo che Obama avesse ragione. Ed una causa amministrativa affidata a studi legali scintillanti ha costi significativi per tutta la comunità del vino che si stringe attorno a un’idea di territorio.