Intervista con il presidente del Comitato nazionale vini Dop e Igp, un organo del Ministero delle Politiche agricole che ha la competenza consultiva e propositiva in materia di tutela e valorizzazione qualitativa e commerciale dei vini Dop e Igp
di Giorgio Vaiana
Per un vino, diventare “Dop” o “Igp” non è semplice. Lo sa bene il mondo del vino italiano che da sempre deve confrontarsi con carte, assaggi di commissione e pareri. Quando la commissione giudica negativamente un campione, e quindi stabilisce che quel vino non può diventare Dop o Igp, il produttore può presentare ricorso. Lo fa rivolgendosi alla Commissione d’appello del Comitato nazionale vini Dop e Igp, un organo del Ministero delle Politiche agricole che ha la competenza consultiva e propositiva in materia di tutela e valorizzazione qualitativa e commerciale dei vini Dop e Igp. Il Comitato è stato rinnovato meno da due anni fa (era ministro per l’agricoltura Gian Marco Centinaio). Presidente è Michele Zanardo. Con lui affrontiamo la questione legata ai numeri e ai disciplinari. Zanardo spiega che nel 2019 la commissione d’appello ha valutato 55 ricorsi. “Il 60% di questi campioni proveniva dal Nord Italia, circa il 30% dal Centro Italia ed il restante 10% dal Sud Italia – spiega il presidente – Il numero di campioni che sono stati riconfermati non idonei si è attestato intorno al 51%”.
Questo significa che la metà, più o meno dei ricorsi fatti, vengono poi valutati positivamente dalla commissione d’appello. Zanardo spiega come avviene un ricorso e quali sono le fasi dell’istruttoria fino al verdetto. “Un campione di vino atto a Doc viene prelevato dall’organismo terzo di certificazione per la verifica dell’idoneità chimico-fisica (accertata mediante analisi) e organolettica (accertata mediante commissione di degustazione) – spiega il presidente – La commissione è composta da 4 tecnici (enologi) e un esperto degustatore. Qui il campione può essere valutato come “idoneo” (e quindi diventare Doc), “non idoneo”, o “rivedibile”. Il campione giudicato rivedibile può essere riesaminato, una sola volta, dopo nuovo prelievi, anche dopo correzione mediante eventuali pratiche enologiche ammesse dalla legge. I campioni risultati due volte rivedibili sono considerati non idonei. A quel punto, nel caso di doppia rivedibilità o di non idoneità, il produttore può chiedere “l’appello” alla commissione che si insedia presso il Ministero (una volta al mese in media) e che è composta da 5 enologi di cui 4 convocati a turno, fra 12 individuati da un Decreto Ministeriale, ai quali si aggiunge il presidente. Alla stessa viene inviata una bottiglia fra quelle presenti nell’aliquota di contenitori prelevati per la valutazione della commissione locale che ha generato la non idoneità. La commissione d’appello può valutare il vino “idoneo” oppure confermare la non idoneità”.
Ma c’è un questione interessante che lo stesso Zanardo solleva: e cioè che il 49 per cento dei vini che in fase di certificazione erano risultati non idonei, poi sono stati accettati e quindi hanno ricevuto l’ok per diventare vini Dop: “I disciplinari sono strutturati per dare una caratterizzazione al prodotto, pertanto sanciscono quali sono i parametri, anche organolettici, minimi che il vino deve garantire per fregiarsi della denominazione – spiega il presidente – Credo che in linea di massima le commissioni locali svolgano un lavoro importante e qualificato, ma, come tutti sappiamo, il vino è una materia viva e come tale può subire influenze da questioni ti tempo, di ambiente in cui si svolge la degustazione, di modalità o strumenti di prelievo, ecc. Il fatto che il 49% dei campioni sia risultato idoneo in Commissione d’Appello, con degustatori che si attengono comunque alla valutazione delle caratteristiche al consumo, previste dai disciplinari, applicando inoltre le capillari conoscenze del territorio nazionale, che ciascuno di essi possiede, dimostra che i fattori di influenza che ho citato prima, possono giocare sul campione una componente importante”.
Ma secondo Zanardo i disciplinari possono adattari si tempi e quindi seguire le “mode”? “Possono adattarsi ai tempi, ma non dobbiamo dimenticare che, come spesso ripeto, la definizione di Denominazione d’Origine, è l’inveramento della storia di uno o più vitigni che si sono adattati talmente tanto bene ad un determinato ambiente, ed al suo sistema di produrre vino, al punto da dare un risultato irripetibile in qualsiasi altra parte del mondo – spiega Zanardo”. Per natura le Doc quindi non possono essere eccessivamente plastiche, altrimenti viene a mancare il presupposto per cui sono state create”. E spiega bene con un esempio, citando gli orange wine, spesso al centro di polemiche tra vari produttori italiani e relativi consorzi: “Per fugare ogni dubbio dico subito che bevo molto volentieri gli Orange Wine – dice Zanardo – Solo che difficilmente, a mio avviso, possono trovare collocazione in quelle denominazioni che hanno la storia e la rinomanza basate su prodotti con caratteristiche diverse. Gli “Orange”, in realtà sono, molto spesso, caratteristici dello stile del produttore più che della denominazione”.