Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervista

Visintin: “La Michelin? Si dà importanza a una infinitesima nicchia della ristorazione italiana”

19 Novembre 2021

di Alessandra Meldolesi

Se Valerio Massimo Visintin non esistesse, bisognerebbe inventarlo.

Cane da guardia del variegato circo gastronomico, senza peli sulla lingua laddove crescono folti sugli stomaci, Visintin è il critico del Corriere della Sera: vanta una penna icastica e maledetta, degna di un malinconico narratore d’oltralpe. Scommettiamo che non sarà fra gli invitati alla presentazione della guida Michelin 2022, il prossimo 23 novembre in Franciacorta?

Visintin, di fatto la stella Michelin resta la massima aspirazione per la categoria, che nell’imminenza della presentazione trema come una foglia. Ma la stella può essere anche un problema, tanto che qualcuno l’ha perfino restituita.
“Ci sarebbe da discutere, prima di tutto, sul concetto di “categoria”. Le stelle Michelin, in realtà, sono una faccenda che riguarda una infinitesima nicchia della ristorazione italiana. I cosiddetti stellati sono lo 0,1% dei ristoranti presenti sul nostro territorio e si portano a casa circa lo 0,3% degli incassi complessivi. Il problema è che, da molti anni, non è più una guida compilata a beneficio dei lettori, ma una patologia che si manifesta nei soggetti che vi aspirano con i sintomi ai quali hai accennato: tremore, irritabilità, ansia, crisi di pianto, insonnia, enuresi notturna, disturbo da panico, secchezza delle fauci. E la presunta restituzione della stella non è mai il frutto di una benefica presa di coscienza, ma una variante del medesimo quadro clinico”.

Quali sono a tuo giudizio i principali limiti di Michelin?
“La guida Michelin è lo scritto più insondabile e misterico, dopo le Centurie di Nostradamus e il Codice di Hammurabi. Nessuno sa con precisione come nasca ogni anno la Bibbia Rossa, secondo quale processo editoriale, lungo quale prassi. Ignoriamo perché si dia pena di segnalare migliaia di ristoranti, se poi focalizza l’attenzione esclusivamente sul gruppetto santificato col dono supremo della stella. Non sappiamo quanti siano con esattezza gli ispettori, quante cucine riescano a testare in ogni stagione, se il loro incognito sia verità o leggenda, in ossequio a quale disegno strategico si muovano. I conflitti di interesse? Sono l’unico elemento di evidente continuità con il resto della critica gastronomica di casa nostra: un grazioso omaggio francese all’italianità”.

Ti è capitato in questi anni di imbatterti in stelle ingiustificate o in ristoranti che avrebbero meritato il riconoscimento e non l’avevano ottenuto? Secondo la tua esperienza la guida è complessivamente affidabile?
“Scontentare una quota di lettori è inevitabile per i critici di qualsiasi settore. E specialmente nell’ambito della ristorazione, poiché la nostra analisi non si misura su un prodotto finito, identico a se stesso in ogni occasione e davanti a qualsiasi fruitore, come accade per le opere d’arte, per i libri o per i film. Pertanto, l’identità di vedute non è l’unità di misura corretta per decidere se la Rossa sia affidabile o meno. Bisognerebbe parlare di credibilità. Che la Michelin dovrebbe aver perduto a causa degli ammanchi e delle ambiguità suddette. Ma la credibilità è un sentimento collettivo. E glielo si regalata volentieri per convenienze personali, legate al peso degli sponsor e all’indotto di chiacchiere, affari e quattrini”.

Michelin però ha anche i suoi pregi. Per esempio è l’unica guida che stipendi i suoi ispettori, cosa che la mette al riparo da pratiche discutibili. Gli ispettori sono semisconosciuti che vengono formati, pagano con carta aziendale e si presentano solo alla fine…
“Questa dovrebbe essere la normalità. Se le altre guide si comportano malissimo, non è un merito della Michelin”.

Qualcuno dice che questi riconoscimenti siano destinati a perdere importanza, di fronte all’avanzata dei cuochi televisivi e da social. Penso a Ducasse che ha traslocato in favore del vincitore di Top Chef. Dalla padella alla brace?
“Sono due facce della stessa medaglia. I meccanismi di promozione che portano in auge gli chef, a tavola o in televisione, sono identici. L’arte del cuoco, se c’è, è un fattore secondario. Per tutto il resto, c’è il marketing”.

Cosa suggeriresti al direttore Lovrinovich? Basta una stella verde per tenersi al passo con i tempi?
“Ma cosa mai posso suggerirgli io? Sono già dei maestri a far passare per sacro un testo gravato dai limiti terreni che abbiamo appena descritto. E semmai mi venisse in mente un geniale escamotage per fargli guadagnare un supplemento d’audience, mi guarderei bene dal comunicarlo”.

C’è qualcuno che nonostante tutto vorresti veder premiato su quel palco?
“Premetto, se ce ne fosse bisogno, che io non vorrei vedere nessuno a piagnucolare su quel palco. La cucina non è una gara podistica. È un mestiere. E se per caso diventa arte, non va vissuta come una corsa a premi. D’altra parte, in nessun altro campo della umana creatività si vive in così diretta e ossessiva dipendenza da un riconoscimento pubblico. Ma se proprio insisti, ti segnalo Gino Strapazzi della Fundegheta di Bellagno Veronese. Dici che non esiste? Be’, e allora? Cambia qualcosa?”