(Santo Caracappa, direttore sanitario dell'istituto zooprofilattico della Sicilia)
di Rosa Russo
Tutti pazzi per il sushi. Un aperitivo con gli amici, una cena romantica o un pranzo di lavoro. Per il sushi c’è sempre tempo perché la cucina orientale ci incuriosisce e ci attrae.
Forse per questa tendenza che fa sentire tutti un po’ gourmet e che ha fatto sì che non soltanto il sushi, ma il cibo in generale diventassero una moda che sembra investire ormai non soltanto i media, ma addirittura la percezione del proprio sé e del proprio io. I sushi-lover sostengono che oltre ad essere molto gustoso, il sushi faccia bene alla linea e alla salute. Tantissimi sono ormai i ristoranti con una insegna giapponese. A Milano ne hanno contati più di quattrocento, ma quelli realmente giapponesi sembrano essere appena una ventina. Meno di cinquanta in tutta Italia.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di sushi? In realtà si tratta di una vera e propria arte che gli chef giapponesi custodiscono gelosamente. Forse non tutti sanno che la cucina giapponese è stata inserita dall’Unesco, nella lista del Patrimonio Culturale e Immateriale dell’Umanità e che in Giappone il sushi si mangia al ristorante nelle occasioni più importanti. Quello che mangiamo in Italia, osservano da tempo gli esperti della cucina giapponese, è figlio di una moda imperante e rappresenta il frutto di un equivoco che non intendiamo approfondire.
Qual è, allora, la prima regola da rispettare? Prima di tutto la qualità, l’originalità, la tradizione e l’autenticità della cucina giapponese. Il pesce deve essere selezionato, tagliato, condito e presentato nel modo corretto. Spesso chi ha una formazione poco approfondita della cucina giapponese, utilizza prodotti sbagliati. Il vero chef giapponese si presenta al mercato del pesce di prima mattina, per scegliere la qualità di pesce migliore. Seleziona, poi, la giusta varietà di riso che va condito con il tipo di aceto più adatto allo stile di sushi prescelto. Se questo non bastasse a farci sentire sicuri, una legge europea vigila sulla nostra salute, prevedendo che il pesce vada servito cotto o processato con gli appositi abbattitori di temperatura.
Le cronache più recenti, soprattutto quelle milanesi, raccontano però un’altra storia. Si tratta di un vero e proprio allarme per il cosiddetto “mal di sushi”, spesso scambiato per una comune reazione allergica alimentare. Nausea, tachicardia, mal di testa, macchie rosse sul viso e sulla pelle sono i sintomi più comuni della sindrome sgombroide, una intossicazione causata dall’ingestione di pesci (sgombro, tonno, sardina, aringa, pesce serra … ) mal conservati oppure tenuti a temperatura ambiente per lungo tempo e contenenti un elevato valore di istamina. Ultimamente nella capitale meneghina sono stati registrati ottanta casi, curati con cortisone e antistaminici. I sintomi scompaiono nel giro di 24 ore. Sotto accusa non è soltanto il pesce crudo, perché la contaminazione batterica può avvenire dopo la pesca e in generale in tutte le fasi di distribuzione e di somministrazione. Congelamento, inscatolamento, affumicamento non determinano la distruzione dell’istamina una volta che questa si è formata. Fondamentale è, allora, il controllo della materia prima, la capacità di conservare correttamente il pesce.
A causa delle numerose intossicazioni alimentare registrate negli ultimi tempi (anche in ristoranti e bar non giapponesi) l’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi di Milano, nata nel 2003, ha stilato una vera e propria lista dei ristoranti giapponesi – pubblicata di recente dal Corriere della Sera – in cui trovare pesce di qualità. L’associazione, all’inizio pensata per risolvere alcuni problemi pratici, si è lentamente posta come mission quella di far conoscere al consumatore italiano, i sapori autentici del Giappone e le sue eccellenze. Esclusi da questa lista tutti gli “All you can eat“ perché non sono stati riconosciuti come appartenenti alla ristorazione giapponese. Anche in Sicilia sono stati segnalati alcuni casi di sindrome sgombroide. A confermarlo Santo Caracappa, direttore sanitario dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia “A. Mirri”.
Ci sono stati casi di sindrome sgombroide in Sicilia durante il 2016?
“I casi notificati sono quasi sempre sottostimati. Di norma dalle strutture sanitarie pubbliche arrivano non oltre 10 segnalazioni quasi sempre nei mesi estivi (luglio- agosto), in quanto la sindrome sgombroide è dovuta ad un aumento dell'istamina, che se presente in basse concentrazioni rappresenta un indicatore della freschezza del pesce, ma i valori elevati, dovuti ad una cattiva conservazione (elevate temperature), possono causare nell'uomo prurito, nausea, diarrea, vomito, cefalea e in casi estremi shock. I fattori predisponenti nell'uomo sono: sensibilità individuale, allergia all'istamina, assunzione di farmaci. Inoltre le alte concentrazioni di istamina permangono, se presenti, anche dopo trattamenti a freddo o a caldo”.
Quali sono i principali accorgimenti che bisogna rispettare quando mangiamo pesce crudo?
“Il Ministero della Salute ha emanato le informazioni obbligatorie a tutela del consumatore di pesce e cefalopodi freschi e prodotti di acqua dolce che prevedono la tracciabilità dell'alimento, proprio per garantire la salute dei consumatori”.
Una legge europea prevede che il pesce vada servito cotto o processato con gli appositi abbattitori di temperatura. In questo modo non vengono ingerite le larve del parassita Anisakis, in grado di provocare gravi problemi all’intestino. Si riscontra di frequente in numerosi prodotti di largo consumo in particolare in quelli che vengono consumati crudi o sottoposti a trattamenti che non ne provocano la morte. Questa legge viene rispettata?
“La legge viene rispettata e comunque le larve vengono ingerite, ma sono devitalizzate. Sono trattate come rifiuti speciali, poste in contenitori idonei, secondo la legislazione vigente. Il tutto per evitare l'ulteriore diffusione del parassita. L'importante è che il pescato sia eviscerato subito, così come avviene nelle navi officina, oppure gli operatori devono eviscerarlo subito dopo lo sbarco e comunque trattarlo a temperature di -20°C per 24 ore o -35°C per 15 ore prima di essere immesso al consumo, per devitalizzare le larve, così come previsto dal Regolamento dell'Unione europea. E' auspicabile comunque che il pescato venga consumato cotto per evitare qualsiasi rischio di infestazione”.