Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervista

Suicide Extra Virgin, al New York Times replicano i produttori

11 Febbraio 2014
produttoriolioNY produttoriolioNY


Giuseppe Mazzocolin, Gianfranco Comincioli, Susy Ceraudo,
Natalia Ravidà, Lorenzo Piccione

Dopo la pubblicazione sul sito del New York Times dell’infografica che accusa l’olio italiano di essere di scarsa qualità, frutto di miscele con altri olii meno pregiati, abbiamo virtualmente fatto un giro fra le aziende, dal Nord al Sud,  e sentito come la pensano i produttori.

A Puegnago, sulla riva del Lago di Garda la famiglia Comincioli, da quattordici  generazioni, produce vino e olio. Dal 2001 una scelta precisa, quella di produrre olii dalla sola polpa, separando il frutto dal nocciolo.

“Sono polemiche che certamente hanno un fondo di verità – dice Gianfranco Comincioli – perché è chiaro che ci sono casi di questo genere: se un’azienda straniera porta in Italia dell’olio e lo imbottiglia qua non si può più parlare di olio italiano. Ma non si dovrebbe confondere la dicitura prodotto da imbottigliato, l’errore di fondo sta nella legislazione europea. Le norme in Italia ci sono, si dovrebbero applicare e fare controlli più serrati. Una polemica di questo genere non fa bene all’immagine dell’Italia in genere, non tanto ai singoli produttori. L’olio italiano si è guadagnato nel mondo un’immagine grazie alla sua qualità e oggi non merita questo”.

Nel Chianti Classico, la Fattoria di Fèlsina ha sottoscritto nel 2001 il manifesto di Veronelli, non un semplice “bollino di qualità, ma una scelta filosofica del produttore”, come recita proprio il manifesto. E a quello si ispira Giuseppe Mazzocolin, “anima” dell’azienda di Castelnuovo Berardenga. “Anni fa – racconta – lo scandalo del metanolo  diede l’occasione all’Italia vinicola di ricominciare, quello che fu chiamato il Rinascimento del vino. Oggi non so se accadrà la stessa cosa per l’olio ma certamente è giusto che emerga la realtà. È giusto che il consumatore sappia che l’olio che usa è italiano solo in minima parte. Ma il punto non sono nè la legge nè i controlli, è un problema di ordine culturale. Non possiamo più vedere una produzione umiliata, non riconosciuta territorialmente. Gli stessi italiani non hanno consapevolezza della nostra biodiversità, è un attacco mortale alla nostra agricoltura. Dopo il manifesto in progress di Veronelli, nella nostra azienda è stata una rivoluzione: producevamo già un olio di buona qualità, dopo il 2001 abbiamo iniziato a distinguere per cultivar e abbiamo iniziato a produrre secondo una procedura molto rigorosa. Oggi vendiamo bene anche all’estero e abbiamo dimostrato che è possibile vendere anche un olio caro. Quello che serve è una rivoluzione culturale”. Mazzocolin pensa però anche ai piccoli produttori che faticano a difendere sul mercato i propri olii. “È necessario sostenerli, renderli indipendenti – dice – , penso ad esempio alla condivisione dei mezzi di media grandezza, per evitare che spesso le olive non possano essere raccolte. Abbiamo 250 milioni di piante d’olivo in Italia, recuperiamo la sacralità di questa pianta”.

L’azienda Ceraudo di Strongoli, in Calabria, produce ogni anno un olio pluripremiato, ottenuto da agricoltura biologica. “In giro c’è molto olio di scarsa qualità – spiega Susy Ceraudo – , quella del New York Times è una generalizzazione frutto del fatto che in America, nella grande distribuzione organizzata, c’è di tutto, il consumatore non sa distinguere. Anche in Italia quando trovi un olio venduto a 3 euro e 60 centesimi c’è sicuramente qualcosa che non funziona, è impossibile produrre a quei prezzi. Sono scelte aziendali, è chiaro, ma alla fine la qualità del prodotto ripaga. L’assessore pugliese ha invitato la direttrice del New York Times? La aspetto anche nella nostra azienda, così che possa rendersi conto di come si ottiene un prodotto”.

“Certamente il New York Times ha messo in luce un problema”, sostiene Natalia Ravidà. L’azienda di famiglia, a Menfi, produce ogni anno 45 mila litri venduti quasi esclusivamente all’estero proprio grazie all’intuizione di Natalia che anni fa, vivendo a Londra, si accorse che l’olio siciliano era praticamente sconosciuto. “Gli americani – spiega – vanno al supermercato e sullo stesso scaffale trovano extravergini da 9,99 $ e da 45 o 50$ e nessuno spiega loro la differenza. Il problema è che la legge dovrebbe tutelare il made in Italy vietando di commercializzare olii frutto di miscela con prodotti non comunitari. Serve una normativa più rigida. La polemica innescata dal New York Times dà la possibilità oggi di parlare di tutto questo”.

Pianogrillo è un’azienda biologica nel cuore della Sicilia, a Chiaramonte Gulfi. La cultivar principale è la “Tonda Iblea”, l’olio prodotto vanta un lungo palmares di premi internazionali. “Basterebbe chiarezza – dice Lorenzo Piccione – , distinguere fra olio italiano e blend e dirlo chiaramente, differenziare l’olio di ‘fattoria’ da quello industriale.  L’importante è che chi acquista sappia cosa sta comprando, scelga consapevolmente che se compra un olio da 3 euro non è certamente il top. Come comprare un cartone di Tavernello o un vino da 100 euro a bottiglia. Una polemica come questa non danneggia più di tanto i produttori che hanno puntato tutto sulla qualità, perché parlare di questo argomento è importante. Meglio buttarli questi sassi nello stagno, anche se increspano un po’ le acque. Sono sicuro che il direttore del New York Times sa benissimo come si produce l’olio in Italia, quello buono e quello no. Invitarla è certamente una provocazione ma se volesse visitare la mia azienda ben volentieri. Sono indagini scomode ma ben vengano”.

Stefania Giuffrè