“L’Italia è il Paese per eccellenza del gusto, è semplicemente magia e fantasia, il buono e il bello dell’enogastronomia nel mondo. Un po’ come Disneyland negli anni ‘50”, a dirlo non è una voce fuori dal coro ma Steven Jenkins, vice presidente dei Fairway Markets, la catena di supermercati gourmet fondata a New York negli anni '30 e che ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale nell'educazione gastronomica dei newyorkesi.
Come percepisce l’Italia negli Usa?
“Il mercato statunitense è una grande opportunità per tutti e il made in Italy ha le carte in regola per sedersi al tavolo dei grandi”.
Eppure sembra difficile conquistare il mercato statunitense. Cosa dovrebbe fare un imprenditore per valorizzare il proprio prodotto negli Usa?
“Per emergere è necessario individuare il mercato di riferimento. E per farlo bisogna partire dalla città giusta: NewYork. La grande Mela rappresenta nel mondo gli Stati Uniti del gusto. E’ un passaggio fondamentale perché sbagliare il mercato di riferimento può significare sbagliare l’approccio: puntare su Los Angeles non è lo stesso che puntare su New York. Una volta arrivati a New York è necessario trovare immediatamente il canale diretto: investire il proprio tempo per promuovere il prodotto che si vuol far conoscere, inviare la campionatura senza attendere necessariamente un riscontro immediato, ma coltivando con pazienza e cura quella che sarà la base del lavoro di domani, ma anche questo non basta più. Tra migliaia di prodotti simili devi investire sul marketing. Prendi cinquemila euro: ingaggi uno scrittore che possa scrivere la storia della tua azienda, spieghi perché i tuoi prodotti sono migliori degli altri, lo fai pubblicare e poi cominci da lì la tua avventura, dove tu imprenditore sarai ambasciatore di te stesso. E non è finita…”.
Si spieghi meglio…
“Dopo il primo ordine devi lavorare per ottenere gli ordini successivi e per farlo devi osare: prendi l’aereo arrivi a New York e promuovi l’Italia all’estero. E’ l’unico modo per fidelizzare il consumatore e per far capire agli addetti ai lavori che tu sei in prima linea sulla vendita e sulla commercializzazione del prodotto. Quando il prodotto comincerà a riempire gli scaffali dei primi supermercati di New York saranno gli altri fornitori delle altre zone a contattarti per portare il tuo prodotto in Canada, nel Connecticut o in qualunque altra zona degli Stati Uniti. Per fare questo lavoro non bastano i soldi, serve tanta passione e soprattutto tempo da investire. E’ un passaggio fondamentale che non tutti hanno chiaro”.
Quindi individuare il mercato di riferimento, marketing e tempo. Serve altro?
“Credo di sì. Il consumatore si fida dell’autorità. Se Steve Jenkins assaggia un prodotto e questo lo convince: scrive un articolo, butta giù due righe per il blog, scrive una recensione per far conoscere la storia di quell’azienda a tutti. Il newyorchese legge, si informa, si appassiona e trasmette ad amici, parenti e colleghi quello che ha conosciuto, ed è così, che si crea una rete tanto sottile quanto indissolubile. Il produttore italiano se vuole competere in un mercato come quello statunitense deve stare a questo gioco. Solo uno su dieci è tanto stupido da stare attento alla campionatura o magari si attacca al metodo di pagamento”.
E basta solo questo per approdare negli Usa?
“No, è necessario anche individuare il giusto canale di distribuzione. Il governo Italiano ha sempre supportato i prodotti italiani attraverso il canale dell’Horeca. Finalmente, qualcuno ha suggerito che per sviluppare grossi volumi, per dare visibilità ai prodotti è sufficiente posizionarli sugli scaffali dei supermercati”.
A proposito di supermercati, come vede un suo competitor come Oscar Farinetti, numero uno di Eataly?
“Eataly secondo me non è il modo migliore per promuovere il made in Italy negli Usa. Forse qualcuno pensa che gli americani siano stupidi ma non lo sono affatto. Il concetto di Eataly è fondamentalmente sbagliato. Chiedono ai produttori investimenti eccessivi per posizionare i loro prodotti negli scaffali. Sono contributi promozionali che non sono minimamente giustificati da quello che poi sarà il ritorno economico. Chi frequenta Eataly è gente sicuramente chic: che gira, guarda, osserva incuriosito gli scaffali ma poi non compra. Quindi il produttore è drenato di finanza ma alla fine non ha nulla in mano”.
Roberto Chifari