«Meno winebar, più wineclub. Intesi come ambienti che abbattono ogni barriera, allontanano l’interiorizzazione, aiutano ad dischiudersi, smontano l’individualismo e aprono alle relazione sociali.
Così l’uomo cessa di essere una macchina seppur perfetta e ritorna quello dell’Umanesimo. Ed esplicita le emozioni ma anche quella virtù che i latini definiscono con tre parole: ”in vino veritas”».
E’ il progetto di un “designer culturale” che individua uno dei migliori habitat per coniugare la cultura del vino. Un luogo, quale la cantina o l’enoteca, più spirituale che euclideo, il cui disegno porta la firma di Franco Rodriquez che di vino se ne intende, tanto quanto di “architettura intellettuale”. Cresciuto a pane e Marsala oggi Rodriquez, nell’omonima città, gestisce un’avviatissima Enoteca che non conosce crisi di consumi.
Franco Rodriquez, allora il vino, come la definizione del grande sociologo Giampaolo Fabris, lo dobbiamo considerare anche noi come il “miglior catalizzatore della socialità”…
«Il vino è un grande dono che il cielo ha fatto alla terra. E uno degli aspetti meno evidenti ma più incidente è che sa regalare la valorizzazione del tempo. Quando nell’individuo riusciamo a scorgere la sua consapevolezza di quanto importante sia il tempo, la distanza fra le generazioni si annulla, non ci sono spazi euclidei ma aree condivise. Lo vediamo soprattutto in quei cambi generazionali dove i figli ereditano tradizioni centenarie e poi le coniugano con i criteri del terzo millennio senza che con questo ne nascono conflitti, vedi l’esempio dei Tasca, degli eredi dei Planeta, del Barone di Villagrande, per citarne tre».
Perché il vino è così centrale prima ancora che sul piano del marketing, sulla dimensione simbolica?
«Perché attraverso ad esso prevale la condivisione. Come la condivisione di un calice di vino. E la condivisione è un sentimento tra le più belle espressioni dell’amore. Il carattere umano è vero ha mille facce e un comune denominatore, quello che tende a mimetizzare le emozioni. E col vino le emozioni si esprimono allo stato puro, con l’anima, con cuore. Sì, confermo, la condivisione di un buon calice di vino è l’esplicitazione degli entusiasmi repressi».
Parlando di cuore qual è il vino del suo… “cuore”?
«Quello della mia infanzia, il chiavistello dei miei ricordi proustiani: il Marsala. Più che un vino uno scrigno che racchiude un patrimonio di emozioni di affetti, di sensazioni e legami con la terra, il legame indissolubile con la mia terra che il vino offre».
Ma allora i suoi gusti sono legati al cuore, all’anima o… al palato?
«Si sono formati attraverso una trafila, un percorso iniziato con i bianchi, poi evolutosi con i rossi e poi regresso di nuovo ai bianchi. Ma quelli mittle europei. Un ritorno all’antica, perché solo i bianchi hanno la capacità di offrire una gamma sia olfattiva che gustativa, ampia, varia, sottile, come un vero arazzo di sensazioni che si intrecciano, si confondono si mischiano e regalano piaceri complessi e al contempo indimenticabili. Bianchi della mia terra. Che si alternano ai riesling della Mosella, dell’Alsazia, del Reno. Insomma i grandi vini da invecchiamento».
Ma questi non sono gusti da vero siciliano. E i siciliani, lei che li conosce bene, che gusti manifestano?
«Hanno un rapporto col vino veramente indefinibile. Il siciliano è un consumatore che manifesta scarsa curiosità e insufficiente cultura. Qualcosa però sta cambiando. Prima conoscevano e amavano solo i vini siciliani, li considerano “tutto il loro mondo, anzi l’universo” . Qualcosa sta mutando seppur lentamente, perché non è facile rimuovere remore centenarie».
Il problema lo si può individuare nel fatto che ci sono molti produttori e pochi bevitori?
«Questo è vero, si contraggono i bevitori e si amplia la qualità. Ma il consumatore oggi comincia a dismettere i panni del presuntuoso ed entra in cantina alla ricerca del piacere di parlare non solo del vino ma tutto quanto gli ruota attorno ancor prima del piacere di ad assumerlo. È vero i bevitori sono pochi e non tutti buoni e produttori sono aumentati a dismisura senza che questo eccesso di offerta abbia portato sana concorrenza e stimoli a vere novità».
Cibo e vino, come sta oggi, la “cultura dell’abbinamento”?
«Sta crescendo il popolo dei sommelier domestici. E si dividono in tre categorie. La prima chiede il vino ideale da abbinare ad una certa ricetta. La seconda inverte le parti, ama un certo vino e chiede dei suggerirgli la ricetta ideale per abbinamento. La terza cerca il vino come simbolo di qualità e di eccellenza e il vino solo con la sua presenza deve nobilitare non solo la cena ma tutta una serata».
La ristorazione. Come stiamo in Sicilia a “Carte dei vini”?
«Male. Manca la cultura dell’offerta, domina la lista della convenienza, quelle degli agenti e/o quella dei fornitori. Un elenco dei vini povero di volumi e soprattutto di idee e di varietà. Eppure con la cucina siciliana ci sarebbe da sbizzarrirsi. Per la sua ricchezza i suoi sapori. E quant’altro, vedi aromi spezie culture tradizioni…»
Il Marsala come consiglia di abbinarlo?
«Con i formaggi, soprattutto gli erborinati, l’unico vino capace di cancellare le lunghe persistenze aromatiche e la sua grassezza. Ma anche i molesti aglio e cipolla. Bene poi col cuscus di pesce o di carne. Va altrettanto bene come aperitivo, ma di questa tiritera il Marsala manifesta stanchezza. Ama rendersi moderno innovativo originale… Mi fermo qui, alla prossima puntata magari con più tempo e più spazio. Il Marsala ha “una storia secolare, tutta da raccontare”. Per chiudere in rima…»
Stefano Gurrera