Una lunga intervista a Tiziano Caruso, docente dell'università di Palermo: si parla di olio, di moderne tecniche di produzione, di mercati e del futuro dell'olivicoltura italiana, Che, forse, si chiama bio-distretto
(Tiziano Caruso)
di Giorgio Vaiana
Irrigazioni, bio-distretto, nuovi impianti e il futuro del mercato nazionale dell'olio.
Parla a 360 gradi Tiziano Caruso, ordinario di Coltivazioni arboree presso l'Università degli Studi di Palermo. Che sdogana in pochi minuti, la tesi secondo la quale non serve irrigare gli alberi di ulivo. “Perché non si fa? – si domanda il professore – E' mancanza di conoscenza, ma soprattutto di cultura. Oggi a chi mi rivela che sta pensando di mettere a dimora nuovi ulivi, chiedo sempre se in zona abbia una adeguata riserva di acqua”. Già, perché secondo il docente, che comunque si avvale di studi scientifici, il benessere, inteso anche in senso economico, di un metro cubo di acqua destinato ad alberi di ulivo, ad alberi di mandorle o agrumi, è maggiore poprio per chi sceglie di produrre olio. Ossia utilizzare un metro cubo di acqua sugli alberi di ulivo è molto più redditizio. “Togliamoci dalla testa certe antiche convinzioni che poi l'olio venga più diluito se gli alberi vengono irrigati – spiega Caruso – Oggi ci sono tecnologie che consentono di estrarre l'olio in maniera perfetta. Le irrigazioni, invece, servono a mantenere la pianta in salute, non attaccabile dalle malattie e molto produttiva”. E proprio sulla produzione, continua Caruso: “Io non sto dicendo che bisogna fare delle produzioni super-intensive, ma intensive con alcune accortezze”. Perché secondo il docente ormai è venuto il momento di fare i conti con la tecnologia: “I nuovi impianti di uliveti non possono prescidnere dall'utilizzo delle macchine – spiega – Potatura e raccolta manuale arrivano ad incidere per l'80 per cento sul costo finale dell'olio. Le macchine, inoltre, sono anche più rapide. Avremo così una raccolta più omogenea”. Perché se si vogliono aggredire i mercati, “è necessario fare in modo che un prodotto che sia stato apprezzato possa essere replicato l'anno successivo”. E' vero, ci sono le incognite legate al clima, “ma utilizzando metodi scientifici è impossibile sbagliare”.
Caruso racconta che oggi è pratica comune della stragrande maggioranza degli olivicoltori di raccolgliere le olive con tempi biblici, portarle al frantoio con diversi gradi di maturazione, ma anche di diverse tipologie e poi molirle tutte insieme: “Non c'è cosa più sbagliata – dice – Il frantoiano, nella filiera, deve avere il ruolo più importante. Deve selezionare le varietà di olive, separarle in base alla loro maturazione e, soprattutto, molirle singolarmente. Sui mercati devono arrivare oli mono-cultivar. Oppure i blend, che però possano essere facilmente riprodotti, perché so con certezza le percentuali di varietà utilizzata”. Per questo Caruso distingue due diversi modi di vivere l'olivicoltura: parliamo di bio-distretto, oppure di Food Commodity, ossia legata alle multinazionali, “che non vuol dire – spiega Caruso – che abbia una qualità inferiore”. Il progetto dei bio-distretti è il futuro del'agricoltura in generale: “C'è tanta strada da fare – spiega – Creare delle vere e proprie isole felici dove la natura convive con le moderne tecniche di coltivazione, con gli studi, che permettono di poter parlare di sostenibilità sia economica, che sociale e territoriale. Ma soprattutto dove si producano prodotti che facciano anche bene alla salute”. Si tratta di aree del nostro paese che possono essere valorizzate attraverso il paesaggio, i suoi monumenti, la sua cultura. Una nicchia che potrebbe diventare fondamentale per il sempre crescente turismo gastronomico. Luoghi, in pratica, dove si fa agricoltura in maniera scientifica per essere presenti sul mercato con prodotti che poi possono essere replicati nel tempo: “Il problema è che l'olivicoltura, almeno fino a 30 anni fa, è stata trattata come un sistema agroforestale – dice Caruso – Cioè non veniva applicata nessuna tecnica agronomica, come la potatura, le difese della pianta, la gestione del suolo. Si lasciava fare alla Natura. E oggi è davvero sbagliato. Ci sono delle tecnologie che sono in grado di farmi sapere la quantità esatta al millilitro di acqua da dare ad una pianta. Le dobbiamo sfruttare se vogliamo essere competitivi”.
Ma non guardiamo alla Spagna: “Non si può fare un paragone – dice – Lì c'è un altro modo di fare olio, poche varietà e gestione diversa. I prezzi sono una scusa. Anche lì ci sono aziende che, pur essendo una accanto all'altra, vendono l'olio a diversi prezzi. Il valoro di mercato lo fa la bravura di chi sa vendere e si sa proporre”. C'è, poi, un patrimonio varietale che in Italia non viene sfruttato: “Al nord per motivi di clima si coltivano solo poche olive – dice Caruso – ma al Sud è diverso. Solo in Sicilia, per fare un esempio ci sono più di 150 specie di olive. Noi ne coltivaimo 8, forse 9. Ecco, se cominciassimo a proporre produzioni specifiche, secono me riusciremmo ad imporci in mercati di un certo tipo. In Svizzera ci sono oli che si vendono anche a 40 euro al litro”. A proposito di spazi dei mercati da conquistare. Solo una piccolissima percentuale di coltivatori, produce le olive da mensa: “Non capisco perché – dice Caruso – Eppure è un mercato che ha tantissimi spazi di movimenti e di guadagni.
Insomma le idee di Caruso per l'olivicoltura sono chiare. Bisogna puntare tutto sulle varietà autoctone ed utilizzare le tecnologie. Le macchine, infatti, oltre ad abbattere i costi di produzione e rendere la raccolta più tempestiva, permettono di avere un prodotto più omogeneo. Oggi il prodotto che viene raccolto ad inizio campagna è completamente diverso da quello raccolto a fine stagione. “Ci vuole una mentalità per produre prodotti di nicchia – conclude Caruso – ma è necessario un approccio di tipo industriale, anche nelle piccole produzioni. Che devono seguire certi principi naturali, certo, ma anche quelli tipici dell'industria: una volta ottenuto un determinato prodotto, questo deve essere replicabile”. Qualcosa, seppur in maniera sporadica si comincia a muovere. I nuovi impianti, messi a dimora seguendo le nuove tecniche, diventano produttivi in appena 5 anni, “e certe volte producono più degli ulivi che hanno 50 anni. Già dalla Spagna, da Israele e dall'Argentina sono venuti a studiare queste nuove tecniche”.