(Paolo Marchi)
da Milano, Michele Pizzillo
Una volta, prima dei trent’anni d’età, c’erano Massimo Bottura, Massimiliano Alajmo e Carlo Cracco che avevano già raggiunto la professionalità riconosciuta da gourmet e opinion leader del settore nonché la stessa popolarità di oggi.
Poi, sembra che si sia fermato tutto. Tant’è vero che il finalista italiano del San PellegrinoYoungh Chef, Paolo Griffa, non figura fra le prime posizioni. Che cosa è successo? Proviamo a chiederlo a Paolo Marchi, che da dieci anni organizza Identità Golose che lui definisce un congresso di grandi chef. E che ad Expo, nel ristorante di Identità Golose appunto, a turno, affida la cucina a chef stellati italiani e stranieri.
Allora, Marchi, dove sono gli chef trentenni alla Bottura e alla Cracco?
“Francamente non vedo in giro giovani che ti propongono piatti che ti sconvolgano. Ricordo la prima volta che andai a Rivoli al Combal Zero di Davide Scabin: sto ancora chiedendomi se rimasi affascinato o stregato. Un’esperienza straordinaria, niente che fosse fuori posto. D’altronde Scabin è un filosofo. Anche a Le Calandre da Massimiliano lajmo, il più giovane stellato italiano, la prima volta resta indimenticabile. Un ricordo indelebile, insomma. Però avevano superato i trent’anni di età. È vero. Comunque erano giovani e, poi, davanti ad una scoperta quasi sconvolgente non mi domandai quale fosse la loro età”.
Possibile che adesso non la sconvolge nessuno?
“Si fa un po’ fatica a trovare da mangiare qualcosa di diverso da quello che solitamente propongono un po’ tutti. E, poi, sono convinto che la massa di informazioni di cui disponiamo adesso non torna utile agli chef. Così, quando ti propongono qualche piatto nuovo hai la sensazione di averlo già mangiato. Una volta non era così. La carenza di informazioni ti obbligava a cercarle le notizie e quindi scarpinare per scoprire lo chef giovane o quello che proponeva piatti davvero unici e spesso inimitabili. Ho la sensazione che c’è in giro troppa autoreferenzialità, anche fra chi dovrebbe dare le notizie”.
Tutto il contrario di quello che ha fatto Ferran Adria?
“Sempre lungimirante, lo spagnolo. E ancorato al concetto che in cucina ogni giorno è diverso da quello precedente”.
Una cucina di ricerca, allora?
“Una cucina ordinata. Vede, a prescindere dalla proposta gastronomica più o meno di altissimo livello, la Francia continua ad essere un riferimento per la disciplina del lavoro. Oltre a fare marketing, molto efficace, per la propria cucina”.
È difficile per noi raggiungere i livelli promozionali della Francia?
“Probabilmente si. Prima perché non abbiamo i livelli di organizzazione del lavoro e le strategia di marketing che Oltralpe sono ormai routine. Un esempio, per fermarci a Milano, è il caso del sushi o del risotto. In questa città è più facile mangiare il piatto tipico giapponese che il milanesissimo risotto. Sono anche convinto che bisognerebbe insegnare alla gente a mangiare la pasta, che prendo come piatto simbolo perché non è più quello di una volta, quando serviva per sfamare. Adesso la pasta può essere un piatto gourmet. Altro esempio, i vini. Lo chef non può dedicare molto tempo al vino, se no trascura la cucina. E tanto meno mettere affianco al suo piatto un vino che non conosce o senza pensarci bene: si può uccidere un grande piatto”.
Ci sarà, comunque, qualche giovane talento in giro?
“Mi viene in mente Gianluca Gorini de Le Giare a Montenovo di Montiano. Christian Milone della trattoria Zappatori a Pinerolo. Continuerei con Antonia Klugmann de L’Argine a Dolegna del Collio. Enrico Panero di Eataly a Firenze. Alessandro Dal Degan de La Tana ad Asiago. Cristian Torsello dell’osteria Arbustico a Valva”.
Un consiglio a chi ha il compito di promozionare l’Italia?
“Una firma non autoreferenziale, perché deve solo comunicare che siamo il Paese che propone una ottima cucina diversificata”.