Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'intervista

“Origine e originalità, ecco la strada per il successo nel mercato del vino”

23 Ottobre 2013
scrinzi scrinzi

 
Christian Scrinzi

È uno degli uomini chiave del successo del Gruppo Italiano Vini, prima azienda vitivinicola italiana che, con le sue 15 cantine di proprietà, produce e commercializza oltre 105 milioni di bottiglie l'anno.

I vini della miglior tradizione italiana passano infatti tutti da lui, Christian Scrinzi, direttore enologico e di produzione dalla grande esperienza e passione. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione delle eccellenze dai migliori vigneti d’Italia, organizzata dal Gruppo Italiano Vini a Roma. Un seminario in giro per la penisola con le 9 punte di diamante delle Tenute del Giv presentate in 2 annate diverse, per raccontare la storia di questi grandi marchi e i loro cambiamenti. Ma anche una degustazione dei vini di pregio dal Veneto, Piemonte, Toscana, Basilicata, Sicilia e non solo, per poterne apprezzare peculiarità e territorialità.
  
Partiamo dal capire quali sono i fattori che determinano il successo di un vino
 “Innanzitutto c’è da dire che ci sono vini di facile successo, intendo quelli internazionali come Chardonnay, Sauvignon, Merlot, ci sono poi i Pinot Nero e i nostri Nebbiolo, il Sangiovese e l’Aglianico che ci permettono di avere quel valore aggiunto rispetto agli altri. Fondamentale è la materia prima, l’uva, che deve essere interpretata e curata nel rispetto della sua tipicità e del territorio. Conterà sempre di più “l’origine” per i vini d’esportazione e “l’originalità” per i vini sartoriali delle piccole aziende. Importante è anche il ruolo del winemaker, una figura chiave all’interno della vita aziendale di un brand. Chi progetta il vino, che sia l’enologo, il produttore o il winemaker, deve farlo non partendo da una ricetta ma da un pensiero comune. Ci devono essere delle micro modifiche, degli spostamenti armonici senza sbavature per tentare di creare un prodotto sempre migliore, longevo e peculiare al bicchiere”.
 
Quanto conta, però, sapersi anche adattare ai cambiamenti del mercato?
 “È fondamentale. Oltre alla classica distinzione tra vecchio mondo e nuovo mondo ho inserito un terzo gruppo composto dai nuovi Paesi produttori. Il primo deve fare dei vini a mano, sartoriali, per avere una giusta remunerazione visto che la nostra configurazione produttiva è costosa per il valore aggiunto che questi hanno. Il nuovo mondo deve invece, come sta già facendo, puntare sui volumi di qualità a prezzi competitivi. Nei nuovi Paesi produttori, penso al Brasile, alla Cina, c’è un mercato interno interessante, c’è disponibilità di terra per nuovi vigneti e costi bassi di produzione. Questi Paesi dovranno fare del vino più comune, un prodotto senza troppe pretese, che però se fatto nel territorio contribuirà a far crescere la cultura del vino. Noi dovremmo poi andare lì a produrre quel tipo di vino per quel mercato, continuando allo stesso tempo a esportare il vino sartoriale, focalizzando sulle peculiarità ed eccellenze. In poche parole bisogna delocalizzarsi attraverso un’internazionalizzazione dei mercati e una mondializzazione delle produzioni”.
 
E sullo stato di salute del vino italiano di oggi che diagnosi ci può fare?
“Ci sono alcuni vini e alcune grandi eccellenze che non hanno risentito della crisi, ma sono pochi casi. Il comparto in generale ha sofferto. Basti pensare che alcuni hanno diminuito l’uso delle barrique perché il legno costava troppo, o hanno ridotto le ore in vigna o i costi del personale e delle analisi. E’ un momento in cui si devono rimboccare le maniche, incrementare tutte le attenzioni per poter fare la differenza. Quindi c’è ancora molto da fare. Serve una maggiore professionalità enologica in termini di tecnica, ed essere più anglosassoni nella progettazione e latini nella fantasia, interpretando le varietà e scegliendo anche quelle meno facili, senza cercare scorciatoie, ma dando delle risposte di territorio e di varietà”.
 
Quali vini si stanno muovendo nella giusta direzione e quali quelli che potrebbero fare di più?
“Un buon lavoro si sta facendo sul Frascati. Come Gruppo Italiano Vini abbiamo, per esempio, abbiamo organizzato un seminario su Luna Mater presentando la prima annata, che ha riscattato la longevità e l’importanza del Frascati. Un vino che in fondo ha segnato un passo storico e che non ha seguito l’influenza del gusto internazionale, mantenendosi fedele a quello italiano, cercando la longevità e la complessità in altre forme. Oggi il Frascati mantiene la fragranza della Malvasia del Lazio e di Candia rispettando anche la mineralità di quell’area vulcanica. La Barbera è un vino della tradizione, forse è stato ingiustamente per un po’ di anni al di fuori dei riflettori, esercitando un debole appeal sul grande pubblico, e a volte bistrattato. Ma adesso lo si sta rivalutando, e sta scalando verso la vetta dei grandi d’Italia. Se viene fatto in maniera puntuale, precisa in vigna e con buona conoscenza enologica, può dare grandi soddisfazioni come il nostro “Chersi”.  In Toscana con il Chianti Classico “Selvanella” siamo stati premiati nel difendere la nostra posizione sul sangiovese: ogni tanto andavano vini più corposi ma noi non abbiamo mai ridimensionato quello che i toscani definiscono “il vino ignorante”.  Qui però c’è bisogno di un grande lavoro di comunicazione per fare conoscere questi vini d’autore. Idem per l’Aglianico che non deve subire le mode perché effimere. È un vino che non se lo può permettere”.
 
E dei vini siciliani?
“Della Sicilia ho portato provocatoriamente l’esempio del Syrah. È una delle poche regioni d’Italia che può combattere e vincere, in termini sia di qualità che di rapporto prezzo, contro il nuovo mondo, sia per il Syrah che lo Chardonnay. Poi c’è il Nero d’Avola, altra faccia della Sicilia, che si inserisce invece nel vecchio mondo con le sue caratteristiche di eleganza, finezza, longevità. Ecco, la Sicilia vive questo dualismo e dovrebbe capire con coerenza come andare avanti concentrandosi di più sull’esportazione perché ha davvero i numeri per farlo”.

Valentina Gravina