di Dario La Rosa
Quando sei il primo della classe hai due strade davanti: quella del prestigio individuale e dell’isolamento in una nicchia o quella che invece spiana la strada alla condivisione e alla passione.
È la strada scelta da Gabriele Gorelli, primo e al momento unico Master of Wine presente in Italia. Over the top, per intenderci.
Gabriele, come è stata la sua estate?
“Ho cercato per quanto possibile di godermela, perché gli eventi sono sempre di più, da quando c’è stata l’attenuazione del Covid, e i mesi sono sempre più ricchi di appuntamenti in calendario. A luglio sono stato alle Cicladi e poi ad agosto mi sono rilassato. Ma ho lavorato ad un settembre e ottobre molto pieni, per una masterclass che terrò in Brasile. C’è stata anche la Sicilia, sono un appassionato di kite surf e lo Stagnone di Marsala è una delle mie mete”.
Vacanze, bevendo o non bevendo?
“Direi che c’è sempre bisogno di un grande equilibrio. Io cerco di alternare giornate di degustazioni anche pesanti ad altre in cui mi riposo. Non bevo… ma magari assaggio. La cosa fondamentale è quella di riuscire a godere dell’atto del bere e incuriosirsi verso vini nuovi”.
La domanda vien da sé. Un conoscitore del vino del suo livello riesce ancora a godersi il bere come un atto naturale, un piacere che va oltre la tecnica produttiva e il bagaglio di conoscenze che lei si ritrova ad avere?
“Quando c’era da fare l’esame e nel periodo in cui sono stato studente, in tutta onestà era difficile riuscire a godersi un vino per sé. Dopo l’ottenimento del titolo le cose sono cambiate ed è tornata la voglia di bere con semplicità, anche stando a sentire quello che hanno da dire le persone che non sanno di vino. Riuscire a cercare di capire cosa c’è dall’altra parte, rispetto agli addetti ai lavori, è sempre stato motivo di interesse personale”.
Cosa c’è oltre, che idea si è fatta?
“Vedo che c’è grande curiosità intorno al mondo del vino. Essendo un mondo complesso affascina e colpisce soprattutto l’aspetto esperienziale. Alcune persone che magari non bevono correntemente il vino, quando vanno in cantina poi se ne innamorano, alla luce di una spinta che esula da cosa c’è nel bicchiere. Io dico proprio questo: ci sono valori che non appartengono a cosa c’è nel calice ma di cui le aziende devono tener conto”.
Questo potrebbe spiegare parte dell’approccio verso le generazioni più giovani che si approcciano al vino. Secondo lei come si muovono i ragazzi e come andrebbero conquistati?
“Vorrei basare la risposta su alcuni dati di Wine Intelligence. Da una loro ricerca veniva fuori che negli Usa solo un quinto del campione di giovani intervistati beveva vino e lo faceva in modi e momenti differenti da quello del pensiero collettivo, ovvero a tavola. Se lo beve lo fa in maniera diversa, ad esempio per celebrare un momento e non per uso alimentare. Nello stesso momento un campione italiano metteva in luce che l’incidenza di ragazzi che bevono è più alta e c’è interesse verso il piccolo. Si cerca da uscire dai marchi più noti e andare verso una ricerca, verso un messaggio che porta ad approfondire. Non si è più clienti di un brand ma si è in contatto con uno specifico produttore e approccio. Torna dunque l’aspetto dei valori e della cultura. La generazione Z sarà molto consapevole nelle proprie scelte, come quelle legate all’impatto ambientale e alla sostenibilità, quindi indirizzerà il pensiero al consumo dei vini. L’uso di bottiglie in vetro pesante, la questione legate alle chiusure, il bio o le certificazioni di sostenibilità. Tutte queste cose, seppur fondamentali, non lo saranno in modo prioritario, il marchio viene dopo aver fatto un prodotto con una identità, quella che i più giovani vogliono scoprire.
I mercati cambiano e vanno tenuti d’occhio soprattutto i consumatori giovani, perché non si affidano in maniera incondizionata ma sono avventurosi e cambiano spesso gusti. Dobbiamo prepararci, come produzione, a un approccio diverso. I consumatori storici stanno invecchiando, anche le denominazioni più potenti potrebbero risentirne”.
La sua casa è Montalcino, se parliamo di denominazioni potenti è lì che andiamo a parare, insieme a poche altre. Ci dica come è cambiato il suo rapporto con la Terra Madre.
“È cambiato fortemente nel tempo sia il mio personale rapporto che il modo di poter vedere le cose. Ho nel bagaglio l’esperienza di piccolissimo viticoltore che era mio nonno. Montalcino, come altre doc, ha una quota di rinnovamento del vigneto alta. Oggi ci sono tante piante giovani. Spesso oggi non traspare il fatto che c’è uno spostamento dei vigneti. Non si segue più il perimetro identificato ma il vigneto diventa in qualche modo dinamico. La dinamicità di poter decidere dove andare a piantare segna una produzione in linea con il clima che cambia. Da lì parte anche una questione stilistica. Vini meno ossidativi e potenti seppur con grande futuro e anche più bevibili all’inizio. Montalcino deve essere consapevole di fare vini potenti senza per forza farli pesanti. A livello produttivo è proprio la dinamicità che caratterizza Montalcino”.
Andiamo al Titolo. Essere Master of Wine, unico italiano insieme a poche centinaia di altre persone in tutto il mondo come le ha cambiato la vita?
“La mia vita è cambiata molto da quando sono diventato MW. Per ottenere il titolo sono stato rinchiuso come Leopardi a studiare sulla scrivania, dopo sono esplose una serie di opportunità in giro. Io avevo intrapreso questa strada per interesse personale, quindi ho sposato passione e lavoro da quando ho iniziato nel 2015. Ho fondato la mia società ma ho mantenuto la mia occupazione di pubblicitario sino all’ultimo . A febbraio di quest’anno ho scelto di occuparmi solo di vino. Amo l’idea di essere la faccia per l’Italia del vino all’estero. Quando apporto un valore al vino italiano torno arricchito. L’essenza del Master of Wine è proprio questa, una specie di carta oro per imparare in maniera illimitata nel corso della vita”.
Ci saranno altri italiani a diventare Master of Wine?
“Ci saranno altri italiani più o meno presto, io vedo almeno un altro MW entro fine 2023 e spero uno immediatamente dopo. Mi fa piacere pensare che i due che arriveranno sono quelli che hanno iniziato insieme a me e con cui ho condiviso tutto durante il programma di studio. Siamo riusciti a dimostrare insieme che era possibile farlo. I loro successi dimostreranno che si può andare insieme per avere successo, con un metodo che abbiamo in qualche modo “brevettato”. Scriveremo anche qualcosa, in merito. Può essere un bel messaggio all’estero, la presenza italiana, ma anche per gli italiani. Il messaggio è questo: se ce la fate, rimanete nella vostra terra”.
Che ci dice sullo stato del vino italiano?
“Ho analizzato dati 2021, è stato l’anno della ripartenza e della fiducia nel futuro. Credo il 2022 sia senza dubbio partito con più incertezze che pesano non poco sul mercato del vino. Ci sono importanti fluttuazioni dei prezzi di energia e trasporti e ciò non aiuta. Ma c’è anche un consumatore meno orientato a celebrare e a consumare. Anche se le bollicine stanno crescendo. In genere c’è un rallentamento del settore. Quello che è bello rilevare e che chi ce l’ha fatta, è riuscito mantenendo e potenziando, chi era capitalizzato dunque e chi aveva investito bene sul vigneto e sul territorio. Chi fa le cose bene e lavora sul lungo termine raccoglie i margini anche in momenti di crisi. Spero questo guidi le scelte future di chi vuole investire nel vino”.
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