(Carlo Fiori)
di Fiammetta Parodi
Si è conclusa da pochi giorni, con numeri da record, la ventesima edizione di Cheese. Abbiamo intercettato e intervistato Carlo Fiori: una formazione da economista bocconiano – che traspare nella conoscenza del mercato e dei suoi meccanismi – e un’esperienza quasi cinquantennale come selezionatore e affinatore di formaggi (oltre duecento) per la sua Fratelli Guffanti di Arona (NO), lo rendono uno dei più autorevoli punti di riferimento in materia.
Da aprile è in vigore l’obbligo di riportare nell’etichetta dei formaggi non Dop o Igp il paese di mungitura e quello di trasformazione. Che ne pensa? Ci aiuterà ad avere maggiore consapevolezza sulla reale qualità dei prodotti?
“E’ un gioco di specchi, perché la provenienza italiana o estera del latte non è necessariamente indicativa della sua qualità, che viene invece determinata principalmente da ciò che precede la mungitura: sono i luoghi ed i periodi di pascolo, la qualità e le proporzioni di mangimi e foraggi, e molto altro ancora, che consentono di ottenere un buon latte. L’alimentazione dell’animale con mangimi derivati può far sì che aumenti la sua produzione anche del 200%, ma sarà un latte scarico di componenti pregiati e di sapori, sebbene tecnicamente possa rientrare nei parametri per poter essere definito un latte di alta qualità. La determinazione di un prezzo fisso per il latte, poi, indipendentemente dalla sua caratura e dalla sua “storia”, l’ha reso quella che in gergo economico si definisce una commodity – come la benzina o il carbone: l’aumento della quantità a scapito della qualità sta pregiudicando gravemente il nostro prezioso patrimonio di biodiversità”.
Saranno allora le indicazioni Dop e Igp ad aiutarci nella scelta di un prodotto di qualità?
“Non necessariamente. In ambito caseario, oggi, manca purtroppo la consapevolezza che il prodotto valga davvero tutta la somma dei fattori impiegati nella sua creazione. Prendiamo ad esempio il Parmigiano Reggiano: pur nel pieno rispetto del disciplinare Dop, troviamo Parmigiani di qualità e prezzi diversi perché frutto di differenti stagionature, tipologie di animali, ubicazione dei pascoli e altro ancora. Tuttavia, sotto l’egida della Dop, il consumatore è tranquillizzato e indotto a non indagare ed approfondire il reale motivo che comporta la differenza di prezzo tra le varie offerte”.
Il tema centrale di quest’ultima edizione di Cheese era il latte crudo. Quale impatto ha sul prodotto finale?
“La lavorazione a crudo consente al latte di trasferire al formaggio tutte le proprie strutture aromatiche, gustative e organolettiche originarie: quei sentori complessi di fieno, foraggio e cantina che conferiscono personalità al prodotto. La pastorizzazione, al contrario, azzerando il Dna batterico del latte, ne impedisce la coagulazione, che viene quindi ottenuta reimpiantandovi artificialmente la componente batterica: si producono così formaggi con sapori appiattiti e uguali a se stessi. I due procedimenti determinano, insomma, una differenza abissale nel risultato finale”.
A proposito di risultato finale, qual è esattamente l’attività della sua Fratelli Guffanti?
“Mi piace definirmi un formaggiaro. Vivo, cioè, a stretto contatto con la realtà dei produttori di formaggio e quindi, prima di tutto, di latte. Conoscere da vicino i casari, gli allevatori, le stalle, gli animali, i pascoli, ci consente innanzitutto di selezionare il meglio della produzione. Dopodiché, la Fratelli Guffanti effettua una sorta di seconda trasformazione del prodotto, affinandolo e stagionandolo, per consentirgli, nel pieno rispetto delle sue origini, di giungere sul mercato nel momento in cui è in grado di esprimere al meglio ed esaltare le proprie caratteristiche. Questo nostro valore aggiunto ci consente di rendere il prodotto finale ancora migliore di ciò che era in origine, e quindi diverso da ogni altro. Non è un caso che clienti del calibro di Dean&De Luca ci deleghino infatti la scelta dei loro formaggi”.
Come si seleziona un formaggio?
“E’ un lavoro lungo, complesso e spesso istintivo: guardo, annuso, tocco, soppeso, sondo e accarezzo ogni singola forma. La mia esperienza pluridecennale mi aiuta a prevedere il risultato finale dell’affinamento, il modo in cui si evolveranno nel tempo gli aromi, che spesso possono essere molto diversi da quelli presenti nel prodotto iniziale. Insomma, mi sento un po’ come il famoso allevatore Federico Tesio quando vide per la prima volta in lontananza scalciare il cavallo Tibot e, istintivamente, ne comprese le potenzialità”.
Quella del casaro è un’arte, spesso antichissima. C’è un ricambio generazionale o dovremo assistere alla sparizione di alcuni formaggi?
“Dopo anni di allontanamento sto assistendo con piacere al ritorno di molti giovani a questo antico mestiere, fatto di grandi capacità realizzative ed interpretative, tramandate di generazione in generazione. Credo che in parte ciò sia riconducibile alla crisi che, dimostrandoci come non sempre il denaro produca altro denaro, ha riavvicinato molti giovani alla terra”.