di Giorgio Vaiana
C’è un giornale in Italia che ha scelto di fare dei racconti delle cose che non vanno in Sicilia (dal punto di vista turistico), il suo mantra. Anzi, per rimanere in tema, la sua prima pagina quotidiana.
Non c’è giorno in cui nella prima de La Sicilia non ci sia (almeno) una notizia che parli di turismo siciliano. Sia nel bene che nel male, badate bene. Anche se sono sempre di più i “casi” di cose che non vanno di quelli che raccontano le eccellenze. Una precisa scelta voluta dal direttore del quotidiano siciliano, Antonello Piraneo, alla guida della redazione da quasi due anni ormai. “E lo facciamo – dice il direttore – d’accordo con la mia squadra, perché riteniamo che il turismo sia la vera industria dell’isola. Siamo stati sedotti e abbandonati dall’idea di un’industria pesante siciliana. Ma credo che l’industria delle vacanze, come mi piace definirla, sia un polo economico ed occupazionale importante e che riesce a cambiare la filosofia di una città o di un intero territorio”. Ma non solo, perché attorno all’industria del turismo si muovono asset rilevanti: “Penso all’aeroporto di Catania – dice Piraneo – importante e strategico per un’isola che mira, ad esempio, a dimezzare il gap di presenze fra Sicilia e Baleari. Senza contare poi che il turismo si trascina il comparto dell’enogastronomia, un’altra belleza di questa terra. Molte volte ce lo ricordano i non siciliani di quello che abbiamo nella nostra terra. E se dall’esterno di accorgono molto più di noi di quello che abbiamo nonostante le mille bruttezze che denuncia anche il mio giornale, chissà cosa sarebbe questa terra se fosse al massimo delle sue potenzialità”.
A partire dalle infrastrutture, nota dolente. Anzi dolentissima. “Se per esempio un turista grande appassionato di arte, volesse andare da Ragusa a Piazza Armerina per ammirare i mosaici di Villa del Casale, beh forse farebbe prima a tornare al nord con l’aereo”, dice il direttore. Quello delle strade che spesso non ci sono o che sono in condizioni disastrate, dei collegamenti con i mezzi pubblici quasi inesistenti o comunque risalenti a decenni or sono, è una questione atavica. Eppure si parla di Ponte sullo Stretto: “Non sono contrario al Ponte – dice il direttore – ma per favore inseriamolo in un contesto ben più vasto. Ok al ponte se in Sicilia poi si realizzeranno infrastrutture adeguate, come l’alta velocità, un porto hub ad Augusta che serva il Mediterraneo, dei collegamenti rapidi fra Catania e Palermo. In questo caso avrebbe un senso. Altrimenti farlo solo per dire “abbiamo il ponte sullo Stretto”, non avrebbe molto senso”.
I numeri di quest’anno lasciano presagire segni “meno” dappertutto. “Le stime che fanno dal’aeroporto di Catania – prosegue il direttore – parlano di un calo compreso fra il 30 e 35 per cento. Secondo me anche – 40%. Qualche giorno fa abbiamo intervistato Sir Rocco Forte che ci raccontava della riapertura del Verdura Resort. E’ ovvio che stiamo parlando di un altro tipo di turismo, ma lui prevedeva un calo di presenze del 70/75 per cento. Chiaro che il settore luxury, con il mancato arrivo degli stranieri avrà un tracollo. Senza americani e canadesi, solo per fare un esempio, che stanno ancora vivendo l’emergenza sanitaria, questo segmento del turismo soffrirà tantissimo. Un po’ come Taormina. Tre, quattro importanti alberghi della cittadina stanno riaprendo, ma non ci saranno certo numeri importanti”. E allora, che fare? “Difficile dirlo – dice il direttore – Chiaro che quest’anno il turismo sarà di prossimità, magari con arrivi da altre regioni o da altre province siciliane, ma non basterà a compensare le perdite totali. Visto che in Sicilia l’emergenza sanitaria ci ha solo sfiorato, adesso diamo all’esterno la sensazione di essere una regione sicura. E questo potrebbe far aumentare qualche arrivo. Ma è anche chiaro che se, a prescindere dalla tragedia che abbiamo vissuto e stiamo vivendo con il coronavirus, avessimo pensato a un turismo fatto in una certa maniera, con una destagionalizzazione seria, non ci stracceremmo le vesti nonostante il calo dell’inizio stagione”. Secondo il direttore, infatti, in Sicilia il concetto di destagionalizzazione del turismo è rimasto solo “in teoria”: “Invece sarebbe un volano economico importante – dice – Se l’industria pesante ci ha illusi prima e abbandonati dopo, le bellezze della nostra terra ci sono, ce le abbiamo solo noi e non sono replicabili”.
Allora ripartire dai punti forti dell’Isola, che poi sono sempre gli stessi ormai stranoti: “Ambiente in primis – dice il direttore – Abbiamo coste fantastiche e adesso molti enti locali stanno investendo per risistemarle. Nel ragusano per esempio si sta intervenendo in maniera importante. Poi la storia, penso ai parchi archeologici, la Valle dei Templi ad Agrigento, oppure l’Anfiteatro sotterraneo che si trova in pieno centro a Catania, secondo per dimensioni solo al Colosseo di Roma. E poi l’enogastronomia, la bellezza dei sapori che si aggiunge a quella dei luoghi. Ecco bisognerebbe saper sfruttare tutto questo a livello imprenditoriale”. Perché, spiega il direttore, il “brand” Sicilia sa crescendo: “Se da un lato il marchio “mafia” resiste ancora e quindi trovi magari l’aspetto folkloristico della cosa, con il turista americano che vuole cenare con in sottofondo la musica de Il Padrino, dall’altro lato è chiaro che è cambiato tantissimo dalle stragi del ’92. Ci sono due generazioni che nulla hanno a che vedere con quella mafiosità che ci ha caratterizzato per anni e stiamo provando a venirne fuori. Credo che il problema vero sia l’assenza di capacità di marketing, di investire seriamente in attività promozionali, che vengono viste come cose marginali. E invece no. Il brand “Sicilia” piace e attira. Cito Dolce & Gabbana che ogni anno fanno almeno una cosa legata a questa terra, al Google Camp, ormai tappa fissa tra l’agrigentino e il trapanese. E tutto questo non accade per caso. Solo che noi, attorno a tutto questo, non siamo riusciti a creare un marketing giusto. Lo vediamo con un corollario. Invece servono i migliori manager per investire in comunicazione per far “viaggiare” il tanto che c’è e il tanto che si potrebbe ancora fare”.