Si celebrano i 300 anni dell'Editto di Cosimo III che istituì quella che oggi chiamiamo denominazione di origine. Tante cose sono cambiate: dai fiaschi ad una vera eccellenza, restano delle perplessità sulle due Docg spesso confuse anche in Italia, di più all'estero. E i “Supertuscan”, che fecero scalpore negli anni '70, continuano a rimanere fuori dalle denominazioni…
(Vincenzo Zampi)
Cos'è che ha fatto del Chianti Classico un grande territorio del vino italiano? Quale il segreto del suo successo? Ne parliamo con Vincenzo Zampi, docente ordinario di economia e gestione delle imprese presso l’università degli studi di Firenze, grande esperto e conoscitore della materia.
La questione di attualità, ancora oggi, rimane, però, la differenza tra il Chianti e il Chianti Classico. Una questione che viene percepita molto bene in Toscana, ma non così bene nel resto d’Italia (se non tra gli appassionati e gli addetti ai lavori) e all’estero. La cosa comune è che entrambe sono due Docg. Il problema comincia a diventare di difficile soluzione da quando anche il consorzio del Chianti si è messo a fare promozione del proprio marchio. “Una questione estremamente complessa – dice Zampi -. Il Chianti come denominazione è nata come una unica zona molto vasta divisa in varie sottozone. Solo una di queste coincideva con quella che storicamente si chiamava il Chianti ed è stata sia dall’inizio distinta con l’aggettivo di “classico”. Alcuni anni fa si è arrivati alle due denominazioni distinte. Sono due aree che si sono, anche nel tempo, specializzate come tipi di prodotto. Certamente non è facile, soprattutto all’estero, cogliere le differenze tra le due aree e ciò che ognuna di essa può dare, ma ad oggi non è immaginabile pensare a dei cambiamenti sostanziali dal punto di vista organizzativo. Mi auguro tuttavia che il sistema faccia sempre di più e sempre meglio per far comprendere le identità e le caratteristiche delle diverse espressioni del Chianti e della Toscana”.
Si tratta di due vini che condividono, almeno in parte lo stesso nome, lo stesso vitigno principale e, fino a qualche tempo fa, anche lo stesso territorio. Era impossibile non confonderli. Ma sul logo del Chianti Classico, il gallo Nero, c’è una data: 1716. E il 2016 è l'anno in cui si celebrano i tre secoli di questo territorio enologico. “Ovviamente negli ultimi tre secoli sono cambiate tantissime cose – dice il professore -, ma la più importante è probabilmente il modo stesso di concepire il vino”. L’editto di Cosimo III – di cui si celebrano appunto i 300 anni – proponendo il primo esempio di qualcosa di simile ad un sistema di denominazioni d’origine ha rappresentato il preciso segnale che già da quell’epoca, il sistema del vino in Toscana era all’avanguardia. Allo stesso modo alla metà dell’Ottocento il contributo di Bettino Ricasoli a dare una identità più precisa al vino del Chianti è stato un importante momento. Tuttavia il vero salto di qualità, quello che ha portato il Chianti dal fiasco all’eccellenza ormai riconosciuta in tutto il mondo, è avvenuto solo in tempi relativamente recenti.
L’editto del 1716 stabiliva il territorio in cui si produce quello che oggi si chiama Chianti Classico e riguardava ben quattro territori (oltre al Chianti, Pomino, Carmignano e Valdarno di Sopra). Ma il Chianti di allora non era né quello dove oggi si produce il Chianti Docg (oggi molto più grande) né precisamente quello dove nasce il Chianti Classico Docg. Il Chianti è prima di tutto un territorio di un vino e gli stessi toscani chiamano le terre dove si produce Chianti Classico Docg (Castellina, Greve, Panzano, Gaiole, Castelnuovo Berardenga, ecc) “Il Chianti” mentre non fanno la stessa cosa per i vasti territori in provincia di Siena, Firenze, Pistoia, Pisa dove si produce il vino Chianti Docg. L’appellativo “Classico” fu aggiunto dal Ministero nel 1932 e fino a qualche tempo fa era una sottozona del Chianti (al pari del Chianti Colli Senesi per fare un esempio).
“Ma il Chianti deve la sua più importante trasformazione – dice Zampi, all’opera pionieristica di un gruppo di imprenditori che innamorati del vino e della sua produzione, a partire dagli anni ’70, intuirono che l’unica via per assicurare il futuro al settore enologico toscano era quello di ricercare la qualità vera e di farlo in un’ottica di tipo internazionale”.
Hanno così cominciato a fare una serie di cambiamenti, “molto simili – spiega Zampi – a quelli che erano avvenuti in altre zone come Bordeaux. È stato un processo che ha dato i suoi frutti in tempi abbastanza rapidi, permettendo al territorio del Chianti e di altre zone della toscana, di tirar fuori il proprio potenziale, spesso straordinario, sia sul piano della qualità dei prodotti che in tutto quello che veniva dalla sua storia e dalla ricchezza dei contatti a livello internazionale da almeno 200 anni con anglosassoni, tedeschi. Il brand Toscana era ed è un brand che vale tanto nel mondo”.
Questo spiega anche perché i vini toscani sono riusciti ad essere più facilmente riconosciuti come eccellenze e, come tali, ad affermarsi sui mercati internazionali ma anche a trainare l’intero comparto, “un fenomeno che in buona misura è ancora oggi in atto, come dimostrano i più recenti dati sulle esportazioni di vino italiano, dove i rossi della Toscana continuano a mostrare un trend molto positivi”.
Il successo del Chianti non è dovuto né a fortuna né a casualità, ma è frutto di scelte ponderate. “Se il vino è frutto del territorio – spiega Zampi – il territorio viene modellato dall’uomo e sono stati gli uomini che in Toscana hanno fatto la differenza; è interessante notare come nel caso in questione si sia trattato di un insieme di uomini molto interessante anche sotto il profilo sociologico, perché dietro al successo del vino toscano si ritrovavano persone con storie ed esperienze molto diverse fra loro che hanno saputo creare un amalgama probabilmente unico; dalle grandi famiglie aristocratiche proprietarie di antiche tenute, agli imprenditori arrivati al mondo del vino provenienti dalla più diverse parti dell’Italia e del mondo e da settori diversi; ad un insieme di professionisti che hanno trovato in Toscana il luogo ideale per esprimere il loro talento, e così via. Ma tutti loro hanno saputo unire le loro capacità, la loro sensibilità per la Natura ed hanno creduto in questo progetto di rinascita”.
E Zampi fa i nomi di chi ha contribuito a questa rinascita: “È impossibile ricordarli tutti, e per questo chiedo scusa anticipatamente. Oggi il primo ad essere ricordato non può che essere Giacomo Tachis, da tutti riconosciuto come l’enologo che più ha contribuito al rinnovamento del vino non solo toscano, ma italiano; Tachis vuol dire Antinori, famiglia e azienda di riferimento per tutto il mondo del vino italiano. E insieme a questi dobbiamo ricordare tanti altri personaggi e aziende che tanto hanno contribuito al successo dei vini della toscana: limitandoci alla zona più tradizionale del Chianti pensiamo a Sergio Manetti di Montevertine, la famiglia Mazzei di Fonterutoli, Giovanni Manetti di Fontodi, Paolo De Marchi di Isole Olena così come fra i grandi innovatori non si può dimenticare il Castello di Ama”.
Questi personaggi sono stati dei veri innovatori che, spesso sono state considerate persone scomode: “Il Tignanello Antinori e Le Pergole Torte di Sergio Manetti sono probabilmente i due vini più emblematici del nuovo corso. Furono i primi a rompere, sia pure in prospettive diverse, con quella che all’epoca era considerata la vera tradizione e quindi – dice Zampi – suscitarono la reazione dei “puristi”. Oggi possiamo dire che quella tradizione era molto meno fondata di quanto molti all’epoca credevano. È però un fatto che molte delle più fantastiche espressioni del territorio del Chianti Classico sono vini che non sono nati come Chianti classico e ancora oggi non ne portano il nome”.
Oggi il Tignanello, un vino che fece scalpore negli anni ’70, potrebbe essere tranquillamente un Chianti classico “ma ancora non lo è – dice Zampi – e questo significa che probabilmente c’è ancora molta strada da fare”. Un primo passo è stato fatto introducendo la tipologia della “Gran Selezione”, uno dei cui obiettivi è quello di riportare nella denominazione i “Supertuscan” prodotti nella zona, di cui sono in molti casi fra le più grandi espressioni.
G.V.