(Ciro Giordano)
di Fabiola Pulieri
Si sente dire spesso “l’unione fa la forza” principio che guida gruppi di lavoro, squadre sportive e soprattutto i Consorzi, fondamentali nella crescita di un territorio e nella regolamentazione di aziende e prodotti che diversamente non riuscirebbero ad emergere singolarmente.
Ma affinché questo principio dia i suoi frutti migliori, non basta sottoscrivere una associazione o creare una qualsiasi forma di unione di intenti. La chiave di “svolta” sta nelle singole persone che ne fanno parte e nella loro lungimiranza come nel caso di Ciro Giordano, presidente del giovane Consorzio di Tutela dei Vini del Vesuvio, giovane anche lui, ma già con le idee molto chiare su come proteggere, promuovere e far crescere il territorio vulcanico dove sono la sua azienda – Cantine Olivella – e quelle dei consorziati che rappresenta. Giordano è già al secondo mandato riconfermato a pieni voti, con stima e rispetto da parte di tutti per quello che sta facendo e vuole continuare a fare anche grazie all’aiuto del presidente dell’Ente Parco Nazionale del Vesuvio, Agostino Casillo, e del Direttore del Consorzio di Tutela dei vini del Vesuvio, Nicola Matarazzo, che insieme formano una grande squadra partita il 5 giugno scorso per New York, in occasione della seconda conferenza internazionale dei vini vulcanici del mondo e ora proiettata anche alla conquista del resto del Mondo. Ciro Giordano ci ha svelato il funzionamento del Consorzio di cui è presidente, i progetti futuri e le difficoltà ormai passate affrontate per far risorgere un territorio, quello del Vesuvio, con enormi potenzialità, per anni dimenticato.
Quando è nato il Consorzio vini del Vesuvio?
“Il Consorzio è nato nel 2007 come associazione di produttori e nel 2015 è arrivato il riconoscimento ministeriale con cui è stato approvato ed è quindi diventato Consorzio di Tutela. Il 27 gennaio 2016, sono stato eletto presidente e poiché il mandato del presidente dura tre anni, che sono già passati, quest’anno sono stato rieletto e sono al secondo mandato. Quando sono arrivato, il Consorzio stava al 66% di rappresentatività e attualmente siamo arrivati all’82%. Le aziende che sono rimaste fuori del consorzio sono davvero pochissime. Oggi il consorzio comprende infatti 114 soci, di cui 45 sono le aziende che escono con la loro etichetta sul mercato, la restante parte sono agricoltori che conferiscono le uve. Tra le 45 aziende ce ne sono alcune che hanno tutta la filiera (uve, vinificazione e imbottigliamento) e poi ci sono altre aziende che fanno solo imbottigliamento”.
Qual è la storia del Consorzio e il percorso che è stato intrapreso in questi anni?
“Abbiamo dovuto affrontare tutta una serie di problematiche burocratiche e il primo anno e mezzo di operato se n’è andato per sistemare questioni legislative e amministrative. Siamo partiti dal disciplinare, ma ancora prima dalla base ampelografica per l’elenco delle uve autorizzate nella provincia di Napoli per poi accedere al riconoscimento come Dop, Igp in base alle denominazioni presenti sul territorio. Questo perché dal 1983, anno in cui è stata istituita la Dop Vesuvio, nessuno ci aveva più messo mano. Il mercato nel frattempo è cambiato, alcune varietà di vitigni non esistevano più, i vini venivano fatti con varietà che nel disciplinare non erano nominate e soprattutto regnava una gran confusione”.
È in questo ambito che sono state fatte le prove di vinificazione del Caprettone?
“Esattamente. Abbiamo dovuto fare le prove di vinificazione perché per moltissimi anni il caprettone è stato confuso con la coda di volpe, cioè si riteneva che il primo fosse sinonimo del secondo, ma non è assolutamente così perché il caprettone ha un suo Dna. Quando sono diventato presidente del Consorzio e ho iniziato a fare tutte queste ricerche, fortunatamente ho trovato un lavoro già fatto in precedenza e uno studio sul caprettone in cui si dimostrava che geneticamente le due uve sono totalmente differenti e in effetti anche visivamente se si mettono a confronto due grappoli si notano delle evidenti differenze: la coda di volpe ha gli acini stretti e fini, la metà di quelli del caprettone che invece è più tozzo e finisce a punta. La foglia del caprettone è larga e grande, l’altra invece più piccola e aggraziata. Insomma abbiamo incominciato a mettere ordine e piano piano stiamo andando avanti su una direttiva ben definita”.
A proposito di territorio quali sono le differenze delle varie zone del Vesuvio, che hanno esposizione diversa, composizione del terreno diverso ecc…? Quale la caratteristica che accomuna tutte le aziende, anche se dislocate in punti diversi, quasi a formare un cerchio intorno al vulcano?
“Iinnanzitutto dobbiamo tener presente che ci sono due realtà che spesso si confondono: il Vesuvio e il Monte Summa. Il primo di recente costituzione mentre Monte Summa, la parte più antica, quella che è sempre esistita. Questo già comporta delle notevoli differenze nel terreno perché sono entrambi di matrice vulcanica, ma sono differenti per età. Il Vesuvio è il vulcano più giovane all’interno del vulcano madre, più antico, che è il Monte Summa e quindi il primo ha terreni più fertili e composti da parte organica ad altissima resa, le ceneri infatti hanno bisogno ancora di sedimentarsi e sono meno mature rispetto al più antico. Altra cosa da tenere in considerazione è che il 50% del Vesuvio e di Monte Summa è baciato dal mare, l’altra metà è entroterra verso i monti Lattari, l’Irpinia e monte Matese. Sul lato mare ovviamente si fanno vini morbidi e sapidi, sul versante dell’entroterra invece vini più acidi e poi, altro motivo che crea differenza, è l’altitudine. Se pensiamo al Monte Summa partiamo da 300 metri sul livello del mare per arrivare fino a 650 metri con una escursione termica che già tra i 300 e i 350 metri sul livello del mare vede 5 gradi di differenza di temperatura, giù non piove e 60-70 metri più su piove o viceversa, in più è diversa la composizione del suolo: più si sale e più si trovano nel sottosuolo i residui più grandi delle eruzioni che si sono susseguite negli anni, più si scende a valle e maggiore è la sabbia. Inoltre il versante sud, rispetto al versante nord cresce con una pendenza meno pronunciata che dà la possibilità alle aziende che sono su quel lato di accorpare i terreni e avere distese unificate e più ampie rispetto a chi è sull’altro versante e si trova tanti ettari frazionati in piccole zone”.
Qual è il prezzo dei terreni acquistabili sul Vesuvio? Sono “inaccessibili” come l’Etna o ancora si può investire senza spendere una fortuna?
“Attualmente ancora si può fare l’affare, i prezzi si aggirano sui cinque, dieci euro al metro quadro, stanno crescendo considerando che sono partiti da uno, due euro di dieci anni fa. Questo perché chi ha capito il valore del nostro territorio sono solo quelli che come noi ci stanno lavorando, che stanno comprendendo le potenzialità dei vitigni e dei vini che ne derivano. Appena qualcuno da fuori si affaccerà sul Vesuvio per investire, come è accaduto sull’Etna, probabilmente in quel momento schizzerà il prezzo dei terreni e diventeranno carissimi”.
Quanti sono gli ettari vitati al momento e, se c’è, qual è la possibile crescita futura?
“Oggi sul Vesuvio ci sono 200 ettari in produzione con un potenziale vitivinicolo che arriva a 330 ettari di cui negli ultimi dieci anni sono andati persi circa 100 ettari, abbandonati per mancanza di ricambio generazionale. Negli ultimi tre anni, cioè da quando è nato il Consorzio e con l’innalzamento delle richieste del mercato, c’è stato un incremento di ristrutturazione delle vigne pari al 25% e questo noi lo verifichiamo attraverso i piani Ocm, gestiti dalla Comunità Europea con la Regione Campania. Per quanto riguarda i contrassegni di Stato invece, quando sono diventato presidente del Consorzio, il contrassegno non c’era. Il Consorzio certificava 800 mila bottiglie, però sul mercato si percepiva che c’era una quantità di bottiglie più alta e quindi abbiamo fatto richiesta al Ministero di modifica del piano di vigilanza chiedendo che la certificazione avvenisse non per numero di lotto dichiarato, ma tramite contrassegno di Stato. Quale era la differenza? Che nel primo caso la certificazione avveniva in azienda sul serbatoio, mentre tramite contrassegno la certificazione avviene su ogni singola bottiglia sapendo vita, morte e miracoli di quello che vi è contenuto, persino da quale particella arrivano le uve. Questo ovviamente dà la possibilità di tenere sotto controllo la produzione ed evitare che sfugga qualcosa”.
Cioè come funziona esattamente?
“Per poter immettere sul mercato il prodotto è necessario che venga in azienda l’ente certificatore e certifica i litri di vino prodotti. Con questo certificato si fa richiesta al Consorzio per il pari in bottiglia (per esempio 3.000 litri di vino pari a 4.000 bottiglie e quindi 4.000 contrassegni) si ritirano e si mettono i contrassegni uno ad ogni bottiglia e poi si possono commercializzare. Se non si rispetta questo iter scatta la denuncia penale, 110.000 euro di verbale e il sequestro della merce. Inoltre il Consorzio fa il controllo sullo scaffale, cioè noi abbiamo tre agenti di vigilanza che girano l’Italia e vanno nelle zone dove c’è maggior afflusso del nostro prodotto, lo prelevano in enoteca e fanno il controllo del contrassegno, il controllo legislativo sull’etichettatura e infine prendono il prodotto, lo mandano in laboratorio e verificano il certificato di analisi. Se confermano quelle che sono le caratteristiche del disciplinare, acidità, ph ecc… tutto ok, altrimenti bloccano il prodotto e parte la denuncia con il sequestro della merce. Insomma noi abbiamo messo in campo tutte le “armi” a nostra disposizione per la tutela e la salvaguardia dei nostri prodotti e del nostro territorio”.
Quali sono i rapporti all’interno del Consorzio? I consorziati vanno d’accordo tra loro?
“Assolutamente sì, c’è un intento comune da raggiungere e una stima reciproca che ci spinge quotidianamente a fare gli interessi del gruppo. Dopo tanto tempo siamo riusciti a capire che mettendoci insieme, parlando tutti la stessa lingua e prefiggendoci gli stessi obiettivi, si riesce a realizzare concretamente qualcosa di buono. Proprio pochi giorni fa abbiamo fatto un'assemblea dei soci in cui abbiamo approvato il marchio consortile, cioè stiamo facendo in modo, accelerando le procedure, che tutte le aziende consorziate prima dell’estate possano mettere vicino alla retro etichetta in bottiglia, il loghetto del Consorzio come senso di appartenenza e di identificazione come vini del Vesuvio a capo di un Consorzio che tutela e promuove quel territorio e quei vini”.
Che progetti avete in cantiere per il prossimo futuro?
“Proprio in queste settimane con il Presidente del Parco Nazionale del Vesuvio, Agostino Casillo, stiamo definendo un progetto che partirà nel 2020 per tre anni, che prevede una spesa di un milione di euro, con cui il Parco ci supporterà nel recupero delle vecchie vigne abbandonate, dandoci la possibilità di avere pali, ferri, barbatelle e tutto ciò che ci consentirà di avere un paesaggio omogeneo di tutto il territorio, questo per continuare a crescere come gruppo, come consorzio e per essere immediatamente riconoscibili come sistema territoriale”.
Ma se domani arrivasse un estraneo a comprare un terreno sul Vesuvio dovrebbe stare alle condizioni dettate dal Consorzio e dal Parco?
“Allora, bisogna tener presente che già oggi, in linea generale, chi vuole produrre vini Dop Vesuvio sta nell’area protetta del Parco Nazionale quindi deve attenersi ai vincoli paesaggistici. Chi viene per investire sul Vesuvio, o chi già ha terreni e vuole ampliare la superficie vitata e ristrutturare i vecchi vigneti all’interno del Parco, quando questa iniziativa sarà operativa, avrà gratis pali, ferro, barbatelle ecc… quindi aderirà ad un progetto ma beneficerà dei risvolti positivi a cui è legato ed entrerà a far parte di un gruppo di lavoro che già va in direzione di un riconoscimento mirato del territorio. Il Parco invece beneficia della sistemazione di terreni abbandonati che significano dissesto idrogeologico, sversamenti di immondizia, incendi incontrollati che avvengono su aree trascurate e non pulite ecc… ecc…”
Ritornando al futuro del Consorzio, quali sono gli obiettivi che volete raggiungere a breve termine?
“Per noi, Consorzio di Tutela dei vini del Vesuvio, recuperare nel più breve tempo possibile quei 100 ettari abbandonati, vuol dire riqualificare il territorio per aumentare la quantità di vini prodotti e la richiesta del mercato. Le entrate del Consorzio sono direttamente proporzionali al numero di bottiglie di vino prodotte. Noi sappiamo che oggi il Consorzio incide, su una bottiglia di vino per la quota istituzionale di 0,006 euro e per quanto riguarda il contrassegno, di 5 centesimi, cioè il consorzio incide su ogni bottiglia in totale 0,056 euro. Se questa cifra è moltiplicata per un milione di bottiglie si ottiene un certo risultato, se invece lo si moltiplica per due milioni o tre milioni il risultato ovviamente cambia. Quindi i consorzi come fanno ad andare avanti? Non possono sopravvivere solo con quelli che sono gli incassi delle quote erga omnes, ma attraverso i piani Ocm di internazionalizzazione e Psr 321, i piani di promozione europei, si possono ottenere maggiori fondi di promozione su base di incasso maggiore e così consentire al Consorzio di aiutare i propri consorziati per crescere, farsi conoscere e migliorare nel tempo”.
Quante aziende hanno rappresentato il Consorzio all’evento che si è tenuto agli inizi di giugno a New York?
“A New York siamo stati rappresentati da 8 aziende, perché ovviamente non era possibile andare tutti, quindi abbiamo fatto un bando con cui abbiamo mandato alle aziende consorziate le modalità di partecipazione, i contributi richiesti e le direttive da rispettare e chi ha risposto al bando, in base al budget e al numero di partecipanti consentito, ha partecipato alla missione. Le otto aziende partecipanti, che corrispondono approssimativamente a quelle che partecipano più attivamente alla vita del Consorzio e che stanno facendo da traino alle altre per una sempre maggiore visibilità dei nostri vini nel panorama mondiale, hanno portato a New York 3 referenze ciascuna per un totale di 24 etichette rappresentative dei vini del territorio Vesuviano”.
Che bilancio avete fatto a conclusione di questo evento?
“L’anno scorso alla prima edizione della conferenza internazionale dei vini vulcanici del mondo, organizzata dal Master Sommelier John Szabo, abbiamo partecipato in numero inferiore, con poche etichette e timidamente ci siamo affacciati sul mercato americano e internazionale presente a New York. Quest’anno invece eravamo uno dei pochi territori con più referenze proprio perché sentiamo forte la presenza della matrice vulcanica da rappresentare in giro per il mondo. Tant’è che non ci siamo limitati soltanto alla partecipazione ai banchi d’assaggio, ma abbiamo presentato una masterclass e un seminario, rafforzati dalla partecipazione di un archeologo e del Presidente del Parco Nazionale del Vesuvio. Chi di noi c’era già l’anno scorso quest’anno ha confermato i rapporti con i buyer già conosciuti, ha intrapreso rapporti e contatti con altri buyer americani di altre zone così come chi è venuto quest’anno per la prima volta si è creato delle opportunità o le ha trovate tramite chi c’era già stato. Alcune aziende stanno già lavorando e queste occasioni sono riconferme necessarie ad ampliare il lavoro già impostato. Questo per il Consorzio è un ottimo risultato perché da tre aziende che lavoravano negli Stati Uniti ora siamo passati già a sei aziende e altre sono in trattativa. E poi un altro dato importante è quello raggiunto nei rapporti con il Consolato a New York”.
Ci può spiegare o anticipare qualcosa?
“Sin da quando io ho iniziato il mio lavoro all’interno del Consorzio, uno degli obiettivi a cui ho mirato era di far capire alle istituzioni con cui noi ci interfacciamo, sia come gruppo che come aziende singole, le nostre problematiche. Quindi sono partito dalla collaborazione con il Parco Nazionale del Vesuvio, che ci imponeva una serie di vincoli e grazie al rapporto che si è instaurato con il Presidente del Parco, Agostino Casillo, sono stati risolti per dare maggiore forza alle attività agricole affiancandole a quelle della flora e della fauna. Oggi quando noi usciamo fuori dal nostro territorio, come Consorzio, non parliamo solo del nostro vino e delle nostre azienda, ma parliamo di un tutt’uno col territorio in cui viviamo e in cui lavoriamo quindi parliamo del Vesuvio nella sua interezza inglobando la biodiversità, l’area protetta, il pomodoro del piennolo, l’albicocca del Vesuvio e le strade percorribili turisticamente per innalzare sempre più quella che è la percezione territoriale globale della nostra zona di appartenenza. In quest’ottica a New York, con l’aiuto delle istituzioni locali, abbiamo gettato le basi per un progetto: il Vesuvius Day. Vorremmo creare un evento importante che coinvolga il Vesuvio e la Grande Mela, il Man (Museo Archeologico di Napoli), il Parco Nazionale del Vesuvio, il Consorzio di tutela dei vini del Vesuvio e il Consorzio del pomodorino del Piennolo con l’Università di New York e il Metropolitan Museum attraverso il Museo di Napoli con cui abbiamo già collaborato, il Consolato e i Parchi di New York e creare una giornata culturale attraverso una rete che dalla cultura guarda all’enogastronomia e mette in contatto i due paesi e le due realtà. In tutto ciò altro partner che abbiamo voluto coinvolgere è l’ICE (Istituto per il Commercio Estero). Per noi l’obiettivo è partire dalla cultura, attraverso la conoscenza dei prodotti per finire alle operazioni di scambio commerciale e dare sempre maggior valore al territorio in cui viviamo”.