Lo Champagne per lei è vino da meditazione dalla spiccata componente antropomorfa.
Claudia Bondi, una delle tre finaliste italiane che aspirano al titolo Ambassadeurs du Champagne, istituito dal Comité Interprofessionnel du vin de Champagne, ci racconta la passione per l’icona di Francia a poche settimane dalla prova di Milano, in programma il 18 settembre. Così come abbiamo fatto con Livia Riva, l’altra compagna d’avventura da noi intervistata, la raggiungiamo al telefono nella fase in cui sensi, palato e memoria sono chiamati agli ultimi sforzi, per scoprire chi è questo talento in rosa vocato alle bollicine.
Toscana di nascita e “francese” per fede, Claudia è un’addetta ai lavori. Tutta la sua vita ruota attorno al vino. Ha fondato la società Perle&Perlage, fa la formatrice e la wine ambassador per alcune cantine italiane, la consulente di Champange per diversi ristoranti e scrive anche su riviste di settore. Approda a questo mondo da quello della moda, dopo avere lavorato per firme come Roberto Cavalli. In fondo, il salto dalle passerelle al calice era scritto nelle stelle, o meglio, nelle sue origini natie. Cresciuta “nel triangolo delle Bermuda del vino”, dice lei scherzando, in quell’areale racchiuso tra le province di Firenze, Siena e Arezzo, nella terra dei grandi rossi d’Italia, a trascorrere le vacanze d’infanzia tra i vigneti alle porte del Chianti Classico, non poteva che intraprendere questa strada. Ma è il french touch quello che l’ha folgorata e che l’ha fatta diventare una delle migliori “narratrici” dello Champagne che abbiamo in Italia.
Per lei non esiste l’accezione di Champagne al singolare e professa il concetto di maieutica socratica. In questa intervista spiega il perché.
Come mai lo Champagne lo definisci al plurale?
“Tutti possono ritrovare nello Champagne il proprio alter ego. In esso si possono rispecchiare le individualità di ciascuna persona. Ha un carattere antropomorfo, perché riflette sia chi lo produce, in modo proprio speculare, sia chi lo consuma. Ciascuno trova il suo, quello corrispondente al momento della vita che sta passando, allo stato d’animo, all’umore. Ricordiamoci quello che diceva Napoleone: ” Nella vittoria lo si merita, nella sconfitta se ne ha bisogno”. Ognuno può trovare il suo Champagne del cuore e che poi può cambiare nel tempo”.
Qual è allora lo Champagne in cui ti ritrovi adesso?
“Diciamo che una preferenza l'ho sempre avuta per quelli di Mesnil, amo la loro mineralità graffiante, gli Chardonnay in purezza. Ho sempre avuto la predilezione per i Blanc de Blancs di questa parte della Côte des Blancs. Ma in questo momento lo Champagne che mi sta accompagnando è l’Orpale Grand Cru Blanc de Blancs 1998 di Saint Gall. Sta dieci anni sui lieviti. La maison ha creduto in un’annata difficile, dove era sempre presente il pericolo di muffe. Un vino aristocratico, che sa di burro, di meringa”.
Cosa rende lo Champagne unico per te?
“L’attaccamento viscerale al territorio e come riesce ad esprimerlo. Lo Champagne nasce in condizioni davvero ostili per la vite. E’ un miracolo. Nasce da un parto travagliatissimo. Attraverso di lui riconosci davvero il luogo di origine. E’ un vino brillante, è eleganza, lusso e festa, da un lato, ma dall’altro ti costringe, anzi, ti riporta all’umiltà, al rispetto di chi c’è dietro quel bicchiere, di chi lo fa. Esprime il rapporto viscerale che il vigneron ha con la sua terra. Porta dentro la concezione figliare che lui ha dei propri vigneti. E’ un legame di sangue. E’ un vino da meditazione. E poi è un caso di marketing spontaneo ante litteram. Possiede quel qualcosa di non definito, che non si può spiegare, di esoterico, frutto di un assemblaggio o alchimia di più cose. E poi è l’unico vino che può accompagnarti per tutto il giorno, dalla colazione, quella all’americana, fino alla cena.
In una parola sola come lo definiresti?
“Joie de vivre, inteso proprio con il termine alla francese, perché esprime un concetto di gioia intraducibile in italiano”.
Uno dei produttori che ami di più?
“Pierre Péters è tra i miei preferiti”.
Dal mondo della moda a quello dello Champagne, come ci sei arrivata?
“Nel 2009, dopo aver lavorato per Roberto Cavalli, mi occupavo di acquisto tessuti, ho deciso di rimettermi in gioco. Sono diventata sommelier professionista, ho partecipato a concorsi nazionali vincendo il Master del Nebbiolo e il Master del Sangiovese. In me c’era però sempre latente l’amore per la Francia e cresceva sempre di più quello verso lo Champagne. Maturando e acquisendo maggiore consapevolezza ho cambiato l’approccio su questo vino, il mio modo di “viverlo”. Il nome della mia società di consulenza in fondo lo sintetizza. Perle&Perlage è una dichiarazione d’intenti. Lo Champagne non è un vino ma la perla tra le gemme preziose, una perla viva e non inanimata, che accompagna tutti i momenti della giornata, della vita. Quello che mi ha fatto innamorare del vino, e ancor di più dello Champagne, è che si tratta di una materia viva. Dio ha creato la vite e l’uomo poi ha creato il vino. Mi affascina il ruolo dell’uomo come collegamento con la natura, non è altro che una levatrice, perché è già tutto lì, deve solo tirar fuori il vino. Possiamo parlare proprio di maieutica socratica del vino.
Come si comunica lo Champagne?
“Intanto bisogna dire che esistono tanti Champagne e sfatare questa sorta di sancta santorum, di inaccessibilità. Ci sono grandi prodotti accessibili invece. Questo è ignorato dal grande pubblico. Poi bisogna raccontare le storie di vita vera, e questo vale per il vino in generale. Parlare senza troppi tecnicismi. La prima regola è usare un linguaggio diverso a seconda dell’interlocutore. Quando lo si spiega ad un wine lover o neofita bisognerebe soffermarsi sul calice come se fosse un affresco. Togliere la polvere e farlo vedere. Nel bicchiere c’è già tutto l’esprit del vino. Il concetto di maieutica socratica vale anche per il consumatore. Il comunicatore è solo uno strumento, un conduttore. Bisogna considerare il cuore del vino, l’aspetto emozionale, in questo modo si creano consumatori consapevoli. Poi è fondamentale non tagliare mai il filo con la cantina e con il produttore e avere cura della formazione dedicata a chi poi quel vino deve proporlo e venderlo al cliente finale”.
Comunicazione nella moda e comunicazione nel mondo vino, quali le differenze?
“La tempistica. Nel mondo del vino i processi di comunicazione sono troppo lenti. Nella moda sono veloci ed efficaci, soprattutto tra i vari soggetti che vi operano. E sono in sinergia con il mercato globale. In Italia dobbiamo imparare a non perdere il treno. Personalmente sto cercando di portare nel settore che curo questo modo di comunicare della moda”.
Rimanendo sempre in tema di moda, a quale stile o firma assoceresti lo Champagne?
Lo Champagne ha uno stile inconfondibile, all’interno del quale poi ognuno sceglie il proprio. Lo paragonerei a Cartier. Come avviene per questa grande maison di gioielli, anche per lo Champagne c’è un fil rouge che permea tutto, quello dell’eleganza, della gioia di vivere, della vivacità”.
Ultima domanda, da comunicatrice del vino come ti poni nei confronti di certi filoni come, per esempio, quello dei vini naturali?
“Non sono una fanatica del vino. Il vino deve essere buono a prescindere. Se poi ci sono tutte le condizioni climatiche e territoriali per poterlo produrre con il metodo naturale, meglio. Ma guardiamo la Francia. Il biologico o biodinamico non è mai stato adottato come un vessillo. Collaboro con aziende che seguono il percorso del biologico, e lo propongo e lo valorizzo non perché nasce da questo protocollo ma perché è buono. Pochissimi sanno, per esempio, che Romanée-Conti fa biodinamico. Il produttore deve pensare ad offrire il migliore prodotto possibile, sincero, che rispecchi il suo territorio. Non sono per le ghettizzazioni. Guerre mediatiche del tipo convenzionale vs naturale fanno male al mondo del vino. E’ tutta una querelle italiana. Per me, esemplare è Gravner. Non ha mai fatto della sua filosofia un marchio. La sua filosofia produttiva nasce da un profondo animismo, ha seguito una strada con grande classe, competenza e verità. Per me lui è un monumento italiano. Se posso concedermi un’espressione: ci sono le stelle e chi cerca la polvere di stelle. Per fortuna rimangono persone come lui, le mode passano. C’è la selezione naturale. Due anni fa si è toccato il picco di questo proliferare artificioso di realtà che hanno scelto il filone del naturale per mere ragioni commerciali. Credo però che la cosa stia rientrando”.
Manuela Laiacona