(Andrea Gabbrielli – ph Sergio Oliverio)
di Giorgio Vaiana
Si fa un gran parlare in questi giorni di Doc Sicilia. Tra sostenitori, difensori, scettici e detrattori si è aperto ormai un dibattito innescato anche dalla voglia, manifestata da qualche produttore, di cambiare qualche paletto per difendere in modo più marcato l'identità della Sicilia del vino.
Cominciamo questo giro di interviste con Andrea Gabbrielli, giornalista ed esperto di vino di lungo corso, di Sicilia soprattutto (ha scritto anche 4 libri dedicati all'Isola), oggi tra i collaboratori della newsletter del Gambero Rosso Tre Bicchieri.
Ha seguito un po' di dibattito sulla Doc Sicilia? In questi giorni se ne parla molto, talvolta anche con toni un po' insoliti. Che succede?
“Credo che da una parte ci sia una questione di fondo. Non mi baso su sensazioni, ma parlo con i numeri. Al 31 agosto 2017, la Doc Sicilia, nel confronto con lo stesso periodo del 2016, ha segnato un + 9,50 per cento di imbottigliato, contro un aumento del 7 per cento delle Doc territoriali e del 3 per cento del'Igt Terre Siciliane. Vent'anni fa le Doc territoriali rappresentavano solo l'1,5/ 2 per cento del totale del vino prodotto in Sicilia. Quindi non capisco di cosa si stia parlando. Ero uno dei favorevoli alla Doc Sicilia anche 20 anni fa, quando in Sicilia c'erano situazioni ed equilibri diversi, ma sono sempre stato dell'idea che la Doc Sicilia sarebbe stato un marchio territoriale forte che ti permetteva di farti comprendere e conoscere anche laddove non c'era l'idea di cosa fosse Menfi, o Monreale. Per questo, secondo me, il colpo di genio è il fatto che si può mettere questa parolina “Sicilia” nelle doc territoriali. E Sicilia Menfi, Sicilia Alcamo o quello che preferite voi, permette di identificare un'area. Ed è grazie alla Doc Sicilia che si sono rimesse in moto le Doc territoriali, un meccanismo che si è riavviato”.
Secondo lei la Doc Sicilia va difesa?
“Assolutamente sì. Certo come tutte le denominazioni giovani, c'è bisogno di una “messa a punto”, per usare un gergo meccanico. Ma al ministero, ogni giorno, tutte le denominazioni italiane subiscono modifiche ai disciplinari. E' normale per una Doc che è nata nel 2014. Ci sono delle smagliature”.
Tipo?
“La questione del Grillo, nella tipologia ossidativa. Sono sicuro che si tratti di una dimenticanza. Pensate che Antonio Rallo, presidente della Doc Sicilia, nato a Marsala, non sarà sensibile su questa tematica?”
E le parole di Nino Barraco, allora?
“Un'uscita infelice, nei toni. Poi è chiaro che segnala un problema. Che è reale. Ma va fatto un confronto. E da quello che mi risulta sono già state fatte le prime riunioni. Bisogna discutere di questi problemi, ma nel modo dovuto. Da qui a dire che la Doc Sicilia è un fallimento o un contenitore vuoto, ce ne passa”.
Allora c'è un problema di comunicazione?
“Mi sono appuntato le frasi di alcuni personaggi che sono state pronunciate all'inizio della Doc Sicilia. Tra cui quelle che la Doc Sicilia sarebbe stata “la morte del vino siciliano”. Sono tutte fesserie. Il vino siciliano non è mai stato bene come adesso anche grazie alla Doc Sicilia. Che non ti risolve tutti i problemi, è chiaro, ma ti pone dei paletti. E questo è un bene. In generale tutto il mondo del vino italiano si è rimesso in moto con la nascita delle denominazioni. Ma attenzione ai paragoni con i cugini francesi. La nostra storia è diversa. Noi siamo un paese unito da poco tempo. Quando combattevamo la seconda e terza guerra d'indipendenza (1855), in Francia si parlava già di Doc Bordeaux. La storia ha sempre avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del nostro paese. E così sarà per il mondo del vino. Anche la Doc Sicilia avrà i suoi tempi”.
Sulla questione Grillo e Nero d'Avola?
“Qualcuno ha la memoria corta. Il Grillo prima si trovava solo a Marsala, al massimo nella provincia di Trapani. Ora si trova dappertutto, non c'è area della Sicilia dove non si produce. Forse andavano fatti studi per capire dove rendeva meglio, una zonazione, degli esperimenti per capire la resa e la qualità. Ma resta il fatto che da questa cosa il Grillo non ci ha perso. Anzi. Oggi sono 3 milioni le bottiglie di Grillo prodotte in Sicilia. Come il Nero d'Avola, su cui va fatto un discorso più ampio. Prima era usato solo per tagliare altro vino. Ora è uno dei vitigni più importanti del mondo. E dico mondo perché è uno dei vitigni più importanti della Sicilia, e quindi dell'Italia, e quindi dell'Europa e quindi del mondo. E ci arrivo grazie alla parola “Sicilia””.
La governance della Doc Sicilia funziona?
“Basta leggere gli associati alla Doc e i nomi del Cda per capire che ci sono i personaggi più influenti del mondo del vino siciliano. Penso a Settesoli, per esempio. Perché in Sicilia più del 70 per cento del vino prodotto arriva dalle cantine sociali. Ed è importante che siano state coinvolte in questo progetto per elevare la qualità dei vini siciliani. Dovrebbe, però, la governance, avere la capacità di ascoltare di più. Questo è un loro difetto”.
Come comunicare questa ricchezza in Italia e all'estero?
“Si può fare meglio, perché non tutti si muovono nello stesso modo. Ma Sicilia En Primeur ha aperto uno squarcio nel mondo. Ricordo la prima edizione. Fu un grande caos dal punto di vista organizzativo, ma parteciparono oltre 100 giornalisti, e solo in minina parte erano italiani. Da lì è iniziata una manifestazione che è diventata riferimento per tante altre cose. Poi siamo alla seconda, forse terza generazione di produttori siciliani, che hanno studiato, girano il mondo, hanno nuove tecnologie. Penso a Tasca, Cusumano, Morganti. Il cambiamento è evidente. Una vera rivoluzione. Oggi il vino siciliano è una realtà apprezzata nel mondo per i grandi vini che produce. Bisogna fare tanta strada, soprattutto sul prezzo medio di vendita”.
In che senso?
“E' ancora troppo basso se paragonato al prezzo medio di vendita del vino italiano all'estero e incide ancora lo sfuso. Certo scavando nei dati, troviamo che il prezzo medio di vendita dei vini toscani o piemontesi è inferiore di solo 1,50 euro dai vini della Borgogna o di Bordeaux. Questo vorrà dire qualcosa”.
C'è un problema nel rapporto con i vini dell'Etna. Qualche produttore del resto della Sicilia non ne può di sentire parlare sempre di Etna…
“Si tratta di un problema che sente chi vive e lavora nella Sicilia occidentale. Nel senso che 35, 40 anni fa, gli unici vini possibili in Sicilia erano quelli della parte occidentale. Nel 1990 ho fatto una guida con il Gambero Rosso e sono andato sull'Etna. All'epoca ero riuscito a trovare 4 cantine. Di cui 2 non erano presentabili, perché producevano liquame, non potevo chiamarlo vino. Adesso di cantine ce ne sono più di 90. C'è stata una crescita straordinaria, anche se stiamo parlando di una superficie vitata molto piccola e tante aziende sono state create solo per moda. Ma l'Etna oggi è un biglietto di presentazione che ti permette di andare in qualsiasi parte del mondo. E c'è di più. Chi ha acquistato sul Vulcano, sta raddoppiando le superfici vitate, per tenere testa alla domanda incredibile di questi vini”.
Gli altri produttori, quindi, devono rassegnarsi…
“Basta comprendere che qui si fanno vini diversi. La Sicilia nei momenti peggiori ha tirato sempre fuori un coniglio dal cilindro. Prima la parte occidentale, poi il trapanese, l'agrigentino, il Cerasuolo, ora la parte orientale. Adesso si parla del messinese, grazie a Salvatore Geraci e alla sua Palari con la Doc Faro, che contro tutto e contro tutti, e per anni è stato da solo, ha convinto gli altri che lì si potevano produrre vini di grandissima qualità. C'è un fermento molto positivo. E quindi in Sicilia, non si parla più solo di Grillo o Nero d'Avola, ma anche di Nerello Mascalese e adesso anche di Nocera. E chissà cosa ci riserverà il futuro”.