“Seghe mentali, assolutamente”. È perentorio Allan Bay nel respingere al mittente la teoria oggi in voga, per cui il fine dining sarebbe demodé, agonizzante o addirittura defunto. Secondo lui in Italia non si è mai mangiato così bene; se ci sono nuvole all’orizzonte, anzi, si addensano sulla ristorazione medio bassa, che si trova confrontata a nuove insidie. Basta allargare la visuale oltre la cronaca spiccia, per evidenziare tendenze incontrovertibili.
Allan, da quanto tempo ti occupi di ristorazione?
Ho iniziato a frequentare i primi ristoranti con mia madre, una sindacalista che destando scandalo aveva sposato un piccolo imprenditore. Parlo di luoghi leggendari come Cantarelli a Samboseto, la Santa di Nino Bergese a Genova e l’Ambasciata dei fratelli Tamani a Quistello. Poi è successo che a diciannove anni ho raccontato a un cuoco che mi sarebbe piaciuto cucinare, ma nella vita avrei fatto altro. E lui mi ha suggerito di acquistare il Pellaprat. Ho iniziato a spadellare come se non ci fosse un domani, mentre già mi occupavo di editoria facendo di tutto, dai libri illustrati per Rizzoli a quelli di medicina per Masson. Finché una sera non è venuto a cena uno del Corriere e parlando di storia della cucina, dopo aver mangiato benissimo mi ha detto: ‘Vedo che ti intendi, prova a scrivere qualche articolo per noi’. Era il 1994 e da allora non mi sono più fermato.
Come hai visto cambiare la ristorazione italiana in questo lungo arco di tempo?
Direi che è decollata in modo totale. Quando ho iniziato a girare, in Italia ci saranno stati al massimo cinque locali che facevano cose particolari, tutte diverse ma di grande qualità; ammesso che me ne sfugga qualcuno al sud, non più di dieci. Oggi le stelle in Italia sono quasi quattrocento. Quindi siamo passati da una decina a diverse centinaia, senza corrispondenza netta con la crescita economica, perché il boom in Italia è avvenuto prima. A Milano in particolare, nonostante ci fosse un po’ di mercato, non c’era niente e in generale la qualità media era bassissima. I frigoriferi, sia nei ristoranti che a casa, sono arrivati nel dopoguerra. Prima avevi accesso solo a materie prime iper locali, senza possibilità di stoccaggio, quindi i cuochi dovevano fare miracoli. Solo dopo Escoffier negli anni ’30 la catena del freddo è comparsa in Francia, quindi che cucina si poteva mai fare? All’Ambasciata usavano prodotti locali sottoposti a una lettura storica forte; Bergese operava a Genova, che era un porto di mare; Cantarelli faceva miracoli nella ricca Emilia, più opulenta di altre zone, al punto da attirare pellegrini da tutto il paese. Ma altrove mancavano oltre alle materie prime, la stessa esigenza di una ristorazione di qualità. Quindi è stato una lenta risalita fino alla situazione attuale. Ricordando che in Italia le licenze di somministrazione sono 300mila, contro le 150mila francesi e le 80mila tedesche. Perché una licenza non si negava a nessuno. E adesso è un dramma, perché la torta va divisa in modo infinitesimale e qualsiasi norma è osteggiata, in quanto i piccoli non dispongono dei mezzi per implementarla.
Qualcuno tuttavia sostiene che il fine dining sia morto…
Che il 5% degli esercizi chiuda e apra nello stesso anno, è una regola che vale in tutti i comparti economici, per gli architetti come per le industrie. In qualunque realtà sociale esiste un tasso di nascite e di mortalità. Tra l’altro un ristorante che chiude non diventa mai un negozio di scarpe, mentre può accadere il contrario, poiché il vero valore è la presenza della cappa, quindi è quasi certo che ne arriverà un altro. Un ristorante d’avanguardia invece può diventare una pizzeria, e viceversa.
Secondo Raffaele Alajmo a entrare in crisi sarebbe un fine dining dal format coercitivo, che prevede menu e orari fissi, senza venire incontro agli ospiti
Un ristorante può chiudere per mille motivi: un’emergenza nel quartiere dove è situato, un’offerta sbagliata da parte del ristoratore. Ma non ha senso parlare di crisi, se uno o dieci ristoranti chiudono per motivi diversi. Per quanto riguarda il caso Lo Basso, cui si riferiva esplicitamente Alajmo, a me era piaciuto, ma forse la formula con il tavolo comune e il menu obbligato, a un prezzo consistente, non è stata gradita dai milanesi. È successo semplicemente che alla fine lui non è riuscito a coprire i costi e ha deciso di trasferirsi, ma facendo comunque un ristorante molto simile da 12 coperti, con una parte più easy. Quindi ha fatto quasi autocritica. Io conosco molto bene la realtà luganese, che non è facile, perché c’è un turismo limitato, finanziario. È facile passarci di corsa, mentre un turista a Roma si ferma più giorni e può provare offerte diverse. Aggiungo che non sempre i bistrot aperti dai grandi chef hanno funzionato: fare un ristorante semplice è quasi più difficile che fare un ristorante di qualità. Su internet trovi ricette di tutto il mondo, con un investimento limitato puoi personalizzarle adattandoti alla cucina che trovi e ricorrendo a qualche trucchetto, come sbianchire prima e poi finire rapidamente il piatto. Chi fa cucina di qualità non ha bisogno di grandi investimenti, contrariamente a chi apre ristoranti più semplici, dove una piccola differenza negli acquisti può pesare enormemente alla fine. Chi vuole servire hamburger, deve trovare un fornitore puntuale di alta gamma e saper precuocere e stoccare come se non ci fosse un domani. Poi in molte località ad ammazzare i ristoranti sono stati gli affitti e la mancanza di taxi, visto che si beve.
Un’altra sfaccettatura del problema è l’attacco a Michelin, con i cuochi che contestano il giudizio e restituiscono le stelle
Ma è impossibile restituire le stelle, sono leggende metropolitane! Succede invece che quando qualcuno sta per perderle, sollevi un polverone. Il solo modo per restituire le stelle è cucinare male, ma il diritto di critica è garantito dalla costituzione, a meno che non si sconfini nell’ingiuria o nella diffamazione. Marc Veyrat dice che non farà entrare gli ispettori? Michelin può benissimo inviare qualcuno che lui non ha mai visto e che non si presenta. Prenota, entra, mangia e paga. Non c’è mica il distintivo. Alla fine è sempre un gioco che fa comodo sia a Michelin che agli chef, ci sguazzano tutti. Bene o male l’importante è che se ne parli, come vuole una vecchia tecnica di marketing. Una stroncatura fatta bene può valere più di un’apologia per le vendite di un libro.
Forse però i nostri tempi sono meno inclini al piacere, insomma potrebbe esserci una componente culturale
Non sono d’accordo. L’Italia sta vivendo un pessimo momento sociale ed economico, ma restiamo un grande polo turistico e questo aiuta tutto il paese. Non abbiamo più fabbriche di automobili, ma Portofino, Venezia e la Costiera Amalfitana non possono chiudere. L’afflusso turistico non è diminuito da nessuna parte, forse il Veneto ha perso qualcosa, non Milano, ma le stelle di solito sono vicine al Lago di Garda, che è un’altra meta turistica. Chi è in vacanza deve uscire, quindi un giorno va all’osteria, un altro in pizzeria e alla fine magari al gourmet, mentre un italiano resta a casa. Il vero pericolo sono i piatti pronti, che nei supermercati, aperti fino a tardi, migliorano ogni anno. Da curioso quale sono assaggio tutto e devo dire che la qualità è cresciuta moltissimo, danneggiando fortemente la ristorazione medio bassa. Da Kathay per esempio trovi piatti pronti giapponesi ideati da geni, fatti bene e presentati bene, cui devi solo aggiungere dell’acqua bollente. Ma ho assaggiato anche un pulled porc in busta da rigenerare migliore di quelli provati al ristorante. Personalmente resto molto ottimista sul futuro della ristorazione, meno su quello del paese, che mi sembra destinato a un lento declino. Sono sicuro che fra cinque anni i ristoranti stellati saranno ancora più numerosi e se la clientela sarà straniera, non sarà certo un problema. Per me la cucina italiana è quella fatta in Italia. Se un cuoco italiano fa i poke, sono poke italiani. L’ibridazione ha arricchito sempre tutti, l’importante per i cuochi è sapere l’inglese.
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ALESSANDRO PIPERO: “IL FINE DINING NON È MORTO, SEMMAI È IL SERVIZIO CHE ANNOIA OSPITI GIÀ ANNOIATI”