di Vincenzo Russo*
Cosa cambierà dopo la crisi? Il tema è assai caldo. Se ne parla sempre più spesso, forse anche per scongiurare l’idea di un’ulteriore prosecuzione della quarantena, o forse per non farsi trovare impreparati alla riapertura.
Se ne discute tanto. Si fanno previsioni sulla base di quanto già vissuto dopo la crisi del 2008, molto diversa certamente, ma sempre crisi è stata. Oppure sulla base dei dati che ci provengono da quei territori in cui la situazione è in fase di miglioramento. A tal proposito risultano molto interessanti i dati provenienti da ricerche sui consumatori realizzate in Cina da aziende come la Daxue Consulting e presentate in Italia da Mindshare. Secondo queste ricerche si rileva una profonda differenziazione dei desideri dei consumatori in base ai diversi target. I più giovani (21-30) desiderano tornare nei locali pubblici e nei ristoranti con amici e parenti. Un ritorno ammantato però da una profonda e radicata richiesta di garanzia qualità e la salubrità del ristorante. Il gruppo di età compresa tra 31 -40 desidererebbe partire, anche se i viaggi a cui fanno riferimento sono a breve percorrenza, prevalentemente nazionale. Infine, il gruppo più avanti con gli anni (da 41 a 50 anni) manifesta una forte esigenza di socialità con gli amici e i parenti e l’esigenza di potere accedere a prodotti salutari (anche functional food) in quantità più elevata. In generale si rileva il desiderio di un più ampio accesso ai prodotti. Il 73% dei rispondenti ha affermato che dopo la situazione di crisi spenderà molto di più e che i prodotti per eccellenza più interessanti saranno quelli del food and beverage (29,3%). Segue a ruota il desiderio di fare shopping (15,8%).
Ovviamente in Italia dovremo fare i conti con una situazione di crisi economica e ad una mancanza di liquidità che impatterà sui consumi. Il rientro al lavoro in Cina ha visto il coinvolgimento in prevalenza del gruppo dei “colletti bianchi” che, a loro volta, hanno dato una spinta enorme ai “food delivery”, innescando un percorso virtuoso di mutuo supporto. Ma cosa dovremo aspettarci ancora. Difficile dirlo anche se possiamo servirci di ciò che è capitato nelle precedenti crisi. Tra queste quella più vicina alla nostra memoria è la crisi finanziaria del 2008. Questa crisi sta cambiando il mondo dei consumi. Non faccio riferimento alle possibili contrazioni delle vendite che lascio commentare a chi ha più esperienza di me in questo ambito, ma alla dimensione relazionale, simbolica e psicologica che caratterizza e caratterizzerà la relazione tra consumatori ed aziende. Come abbiamo già segnalato, i comportamenti di consumo saranno sempre più influenzati da una profonda richiesta di trasparenza, sicurezza, autenticità, semplicità e sobrietà. Di fronte a questi trend, alle aziende non resta che ripensare profondamente, dal punto di vista delle strategie di marketing, la relazione con i consumatori. Si dovranno, da una parte, garantire prodotti di alta qualità e di garantita sicurezza (cosa ormai abbastanza assodata) e, dall’altra, sviluppare una comunicazione sempre più capace di interattività, riconoscibilità dell’interlocutore, desideroso di socialità, e coinvolgimento emotivo.
Alcuni dati, raccolti in questi giorni segnalano, infatti, una diversa sensibilità da parte dei consumatori che sembra confermare questi trend. Mi riferisco ad un’interessante ricerca svolta su 12 mila consumatori di 12 paesi, quelli più interessanti dal punto di vista del mercato enologico, svolta da Edelman (cfr. Trust Barometer, 2020), in cui viene offerta una chiara visione delle richieste “emotive” dei consumatori in questo momento storico. Una visione che probabilmente caratterizzerà anche il post crisi. Analizzando bene i dati si rileva una profonda sensibilità dei consumatori sulla Brand Reputation delle aziende. Infatti, l’81% dei rispondenti afferma che un elemento di grande interesse oggi è “avere la garanzia che l’azienda stia facendo le cose al meglio”, ed in particolare che non stia ferma e che sia in grado di rispettare, da una parte, la sicurezza (alimentare) richiesta dal momento, e, dall’altra, che stia facendo il meglio per i propri dipendenti (83% dei rispondenti). Insomma “Fare bene le cose” e “Proteggere i propri dipendenti”, comunicandone gli elementi caratterizzanti, sembrano essere gli elementi di valutazione dell’affidabilità delle aziende per la maggior parte degli intervistati. A ciò si aggiunga che il 33% dei consumatori (ovvero uno su tre) afferma che non sarà più disponibile a servirsi presso quell’azienda che non sta dimostrando di rispettare questi elementi. Il dato arriva al 76% tra i rispondenti cinesi. Dall’analisi dei dati e dal sentiment che si registra da queste risposte si possono individuare quattro specifiche richieste da parte dei consumatori.
La prima è quella non rimanere silenti (Show up. Do Your Part). La richiesta è quella di “non scomparire” e di fare la propria parte. Ci si aspetta un’azione da parte delle aziende. Fare finta che nulla stia accadendo è sbagliato ed inopportuno. Una sorta di tradimento comunicativo. La seconda è quella che richiama da una parte la responsabilità sociale e dall’altra la cooperazione (Don’t Act Alone). Non si deve agire da soli. Ciò che scalda i cuori e che convince di più è l’azione congiunta e corale sia con le altre aziende che con il governo locale. Si pensi alle potenzialità di azione di consorzi, di aggregati di aziende, cooperative o alle possibili operazioni di co-marketing. La terza richiesta è legata all’immagine dell’azienda che non deve solo preoccuparsi di vendere il proprio prodotto, ma proporsi come solutrice di problemi (Solve, Don’t Sell). Lungi dal chiedere alle aziende azioni miracolose o super-eroiche, la richiesta si riferisce anche banalmente all’indicazione di come garantire la sicurezza e la salute dei propri dipendenti, alla possibilità di accedere ai prodotti con uno sconto o semplicemente alle informazioni sull’accesso ai prodotti online o in enoteche aperte i propri vini.
Infine, la quarta richiesta, comunicare emotivamente, con compassione e con fatti (Communicate with empathy). Le persone vogliono essere supportate e rassicurate. Anche in questo caso si tratta non dimenticare che siamo macchine emotive che pensano, sensibili anche al mood e allo stile comunicativo. Usare le iperboli, il lusso, l’aggregato senza pensiero e rispetto per il momento e per soffre rischia di risultare stonato e assai disturbante. Questo è il momento di bloccare qualsiasi pubblicità o strategia di marketing che sia eccessivamente umoristico o con un tono troppo spensierato. Sarebbe poco credibile e di cattivo gusto (per il 57% dei rispondenti). Come si può vedere da questi risultati le aziende oggi hanno un’esigenza ed una grande opportunità, ovvero potere rinforzare la propria Brand Reputation. Le richieste infatti sono espressamente legate a questa dimensione. Brand e reputazione sono due facce della stessa medaglia. Il brand è l’identità comunicata dalla marca mentre la reputazione è il percepito altrui. La reputazione è, quindi, l’esito di un processo articolato che non si gioca nel breve periodo. Ma in questo momento vi è una profonda sensibilità a questa dimensione.
Ciò dovrebbe spingere le aziende a pianificare eventuali cambiamenti o miglioramenti. In un momento storico in cui i consumatori sono particolarmente attenti a queste richieste, nonché all’eticità delle scelte dell’azienda e al purpose che la caratterizza, diviene fondamentale. Ricordiamo che la reputazione dei brand dipende solo per il 50% dai benefici provenienti da prodotti/servizi associati ai brand, per il 21% dai comportamenti dei vertici aziendali e per il 29% dall’impatto sociale della marca[1]. Quest’ultimo fattore è particolarmente significativo poiché la credibilità dello scopo sociale, ultimo e autentico, dei brand passa proprio attraverso la “narrazione” del loro corporate purpose. Quanto è importante per i consumatori che le aziende raccontino il loro purpose? Difatti il 74% degli italiani dichiara una preferenza netta per le aziende con un ruolo sociale esplicitato. Gli effetti positivi che ne derivano sono in termini di advocacy del brand, in quanto il 63.6% degli intervistati consiglierebbe azienda con un purpose e il 54.3% sarebbe pronto a condividerne contenuti. L’impatto positivo del purpose storytelling riguarda anche la fedeltà di acquisto dei prodotti (63.5%) e il grado di attrattività lavorativa di talenti e risorse delle aziende purpose-driven (55,1%). Risulta oltremodo interessante come questo potenziale sia vincolato all’autenticità e al grado di coerenza tra il dire e il fare delle aziende, cioè tra l’impegno sociale raccontato e l’agito effettivo che faccia la differenza lasciando un segno. Si tratta di un ambito che da poco ha permesso di sperimentare dei sistemi di misurazione fondati sull’integrazione di modelli di indagine classica e neurometrica, di grande interesse.
*docente di neuromarketing allo Iulm di Milano