di Daniele Cernilli, DoctorWine
Ricordo bene quando più di vent’anni fa Giacomo Tachis, enologo sommo, mi metteva in guardia su coloro che brandivano come un’arma la parola “tradizione”.
Lui, che aveva una sterminata biblioteca personale di testi antichi sul vino, sosteneva che la maggior parte di ciò che viene considerato tradizionale nel vino, come anche nel cibo, in realtà esiste da qualche decennio e che “l’invenzione della tradizione” è una pratica molto diffusa per avvalorare teorie che di tradizionale hanno spesso ben poco. Volete qualche esempio? Cominciamo con uno che probabilmente scatenerà polemiche e indignazioni. Riguarda il sangiovese che molti in Toscana vorrebbero che fosse usato “in purezza” ovunque. Bene, se c’è un vitigno che prima di qualche decennio fa era “sempre” utilizzato in uvaggio, questo era proprio il sangiovese. Lo era nel Chianti Classico, e se si vanno a consultare i testi dei vecchi disciplinari, quelli ante Docg del 1984, si può chiaramente leggere che quel vitigno era comunemente utilizzato con saldi di canaiolo, colorino, malvasia del Chianti e trebbiano toscano. I vini ottenuti con sangiovese 100% non potevano avvalersi della denominazione, e questa fu una delle principali ragioni della nascita dei Supertuscan, Vigorello e Le Pergole Torte in primis. A Carmignano, addirittura, la presenza di cabernet sauvignon è prevista nella tradizione più antica, e nel primo disciplinare autonomo, quello del 1972, che ne fece una denominazione specifica, priva della parola Chianti a precederlo. Questo vuol dire che parlare di sangiovese in purezza per questi vini non ha nulla a che fare con la tradizione, molto con la visione moderna della vitienologia di quelle zone. Nulla di male, ovviamente, ma non usiamo la scusa della “tradizione” per sostenere scelte del genere.
E non finisce qui. Era tradizionalissimo, e ora illegale, l’uso di piccole percentuali di barbera per produrre Barolo e Barbaresco, utile per correggere colore e acidità in determinate annate. È tradizionale l’utilizzo del merlot in alcune zone dell’Italia centrale, Veronelli nelle sue Guide all’Italia Piacevole del 1969 parlava del Merlot di Spello, ad esempio. E se andate in Friuli a dire che il Merlot non è un vino di lì, molti vi guarderanno con sorpresa, visto che i vini rossi sfusi che si bevono da oltre un secolo nelle osterie locali sono quasi tutti a base di quell’uva. Certo, il merlot non è autoctono, ma non lo è neanche il friulano, non lo sono tutte le malvasie, e si discute ancora sul fatto che lo sia il cannonau. Questo per dire che quelle certezze sono molto meno solide di quanto s’immagini e che chi le sostiene come gravi verità e fondamenta dell’autentica tradizione vitivinicola compie semplicemente un’operazione sbagliata, basata sui propri desiderata ma che poco o nulla a che fare con le evidenze storiche.