di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Si fa presto a dire lieviti. E dire lieviti indigeni (o autoctoni) è tanto di moda. Ma vogliamo provare a capirci qualcosa?
“Quando provo a spiegare in parole comprensibili le questioni tecniche legate ai lieviti, argomento enorme trattato dalla zimotecnia, una branca della microbiologia, inizio facendo un esempio semplice. Dico che i lieviti sono come i cani, il nome è uno solo, ma le razze sono centinaia, se non migliaia. Tutto dipende da cosa devono fare. Se vado a caccia non porterò un Chihuahua, ma neanche un Alano. Porterò un Bracco o un Pointer. Se voglio un cane da compagnia, forse non sceglierò un Pitbull, e così via. Così per i lieviti, suddivisi in migliaia di ceppi diversi. Alcuni ottimi per portare a termine la fermentazione alcolica di un mosto d’uva, altri del tutto inappropriati, perché muoiono con basse concentrazioni di alcool e determinano blocchi di fermentazione e conseguenti innalzamenti di acidità volatile”.
Questo breve discorso, semplice da capire da parte di chiunque, fatto a titolo di esempio e non per esaurire un tema immenso, che prevede anni di studio e di ricerca, mi è stato fatto da un enologo ricercatore particolarmente ferrato su questi argomenti. Me lo faceva perché aveva sentito un famoso “esperto” affermare che solo i lieviti “indigeni” sarebbero in grado di determinare la qualità nei vini. Ora, già solo il termine di “lieviti indigeni” non è molto preciso. A cosa ci si riferisce? A quelli che sono sull’uva? A quelli, ben più abbondanti, che sono in cantina? E a che tipologie? A tutti i lieviti presenti? Questo per evitare di selezionare solo quelli più adatti? Solo alcune domande che fanno capire in quale ginepraio ci stiamo addentrando e come le generalizzazioni sono più che altro operazioni ideologiche e antiscientifiche.
Basta pensare che è sufficiente una variazione delle condizioni climatiche, del calore, dell’umidità, per determinare la maggiore o minore presenza di determinate famiglie di lieviti, anche nello stesso luogo e a piccole distanze di tempo. Di che parliamo, perciò? E come si fa ad affermare con la più grande sicurezza del mondo dei concetti che nessuna ricerca e nessuna sperimentazione seria ha per il momento dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio? Io non ho certezze, non sono così esperto in zimotecnia per poter sostenere convinzioni inoppugnabili. Però ascolto ricercatori e produttori e cerco di farmi un’idea. Una considerazione che mi ha molto convinto me l’ha fatta Gianfranco Fino, viticoltore di grande sensibilità, che mi ha detto, testuale, “io produco il mio Primitivo Es che può arrivare a una gradazione alcolica compresa fra i l 16 e il 17%. Se non utilizzassi dei lieviti selezionati per resistere a quelle concentrazioni, farei un aceto dolciastro, assolutamente imbevibile”.
Ho il sospetto cha abbia ragione.