(Roberto Rubino, presidente Anfosc)
Roberto Rubino, presidente dell'Anfosc, l'associazione nazionale formaggi sotto il cielo e grande sostenitore del latte di qualità e delle sue derivazioni ci invia un articolo sulla “guerra del latte” e sui prezzi troppo bassi. Rubino ha la sua proposta. Che potremmo definire sensazionale.
Ecco la prima parte del testo. Il resto domani.
La crisi della vacca da latte (e della bufala) si va facendo sempre più drammatica. I magazzini di stagionatura dei formaggi sono strapieni, nonostante l’autocontrollo della produzione, i prezzi sono in continua discesa ma, soprattutto, all’orizzonte non s’intravvede alcune proposta concreta che possa portare il settore fuori dalle secche e lontano dalla chiusura delle aziende. La colpa viene sempre attribuita ai politici, le richieste riguardano solo finanziamenti a sostegno, nessuno che incominci dal proprio orticello a cambiare metodo e modello.
Perché questa crisi? Da decenni ci dicono che la nostra zootecnia sconta un handicap di partenza dovuto alle dimensioni aziendali e, quindi, a costi di produzione più alti di quelli degli altri paesi europei. Se così fosse, nell’ultimo ventennio, che ha visto la chiusura dell’ottanta per cento delle aziende, la crisi avrebbe colpito soprattutto le aziende italiane e poco o affatto quelle di altre aree comunitarie. Invece gli scioperi di questi giorni hanno interessato tutti i paesi dell’Unione, sia quelli mediterranei, e sia quelli dell’Est, dove il prezzo del latte, e il relativo costo, è quasi metà di quello italiano. E poi potremmo capire la crisi in un paese dove c’è eccedenza di produzione di latte, come la Francia, l’Olanda, la Germania, ma in Italia produciamo poco più del settanta per cento del fabbisogno. Dovremmo vivere sonni tranquilli. Invece così non è, e allora dobbiamo concludere che l’analisi è sbagliata e che, quindi, se vogliamo uscirne dobbiamo rivedere l’analisi, la lettura del settore.
Non è difficile individuare la causa della crisi internazionale perché, la produzione di latte, nonostante le quote presenti in molti paesi, aumenta ogni anno più dell’aumento dei consumi. E poiché sappiamo che la domanda di cibo è anelastica, sia rispetto al prezzo che al reddito, il suo consumo è strettamente legato alle esigenze nutritive quotidiane – in pratica possiamo comprare e tenere tre autovetture, quattro televisori, e così via, non mangiare più del giusto- allora questo eccesso di produzione provoca naturalmente delle oscillazioni di prezzo, soprattutto nei periodi favorevoli alla produzione. Solo quando ci sono fenomeni naturali sfavorevoli come siccità o alluvioni nei paesi a forte produzione lattiera i prezzi salgono. Ma dobbiamo sempre contare sulle disgrazie degli altri?
Gli effetti delle condizioni climatiche vengono esaltati dal fatto che il latte è considerato una commodity. C’è il prezzo mondiale, poi quello europeo, poi quello nazionale e, infine, quello regionale. E’ un po’ quello che succede nel mondo della cerealicoltura e del petrolio. Quando la produzione aumenta, il prezzo diminuisce. Solo che nel caso del petrolio, sono i paesi produttori a subirne le conseguenze e per alcuni di questi, perché poveri, gli effetti possono essere devastanti.
Nel caso del grano i paesi che possono produrre forti quantità a costi più bassi aumentano la produzione, quelli invece che, strutturalmente, hanno costi più elevati, vedi l’Italia, vanno riducendo sempre più le superfici coltivate. In entrambi casi non ci sono proteste, gli automobilisti gioiscono del ribasso del prezzo della benzina, i produttori di grano smettono di coltivare grano e passano a un’altra coltivazione.
Quindi, il fenomeno è chiaro e gli effetti sono evidenti e attendibili. Se questi prodotti vengono considerati una commodity, quando la produzione aumenta i prezzi scendono e le aziende chiudono. Allora o abbassiamo le produzioni, come spesso fa l’Opec, oppure usciamo dalla logica della commodity, abbandoniamo quella che sembra un’ancora di salvezza ma che invece è la causa della nostra morte, il prezzo unico, e andiamo verso una differenziazione dei prezzi, e chiaramente della qualità.
C’è un altro motivo per cui dobbiamo abbandonare il prezzo unico e concordato del latte. Dato per scontato che il latte non è tutto uguale, se noi invece diamo a tutti lo stesso riconoscimento, va da sé che chi offre qualità elevata, riceve un prezzo più basso e chi invece si mantiene su livelli minimali riceve un incentivo a continuare su quella strada. Ed è quello che è successo nel settore caseario. Prendiamo il caso della ricotta. Oggi la gran parte delle aziende aggiunge panna perché altrimenti questo formaggio sarebbe immangiabile. La qualità è scesa talmente di livello che un formaggio delicato e spettacolare come la ricotta o si fa con un buon latte oppure bisogna ricorre alle alchimie. Lo stesso dicasi per il burro. Certo, si potrebbe dire che negli ultimi due decenni si è parlato molto di qualità, che c’è persino una legge ad hoc (la 169/89), che c’è un premio in relazione al grasso, alle proteine, alla carica batterica e alle cellule somatiche. Quando c’è!
Ma grasso e proteine sono parametri quantitativi, servono a produrre più formaggio non un formaggio migliore. Alcuni sostengono che le caseine, o le sue frazioni, modificano la struttura e quindi la qualità, ma sono disquisizioni da azzeccagarbugli. I burri sono diversi, e molto, nonostante che la percentuale di grasso sia sempre la stessa, e la struttura dei formaggi può avere un’influenza sulla qualità solo in negativo, solo se è un difetto. La qualità è profumi, aromi, sapori e valori nutrizionali che niente hanno a che fare con grasso e proteine. O la relazione è talmente modesta che si può trascurare.
In merito a carica batterica e cellule somatiche, sono parametrati igienici che, anche in questo caso, non hanno alcuna incidenza sulla qualità. Anzi, oggi il mondo della caseificazione ha molti problemi di coagulazione perché la carica batterica è molto bassa, il latte è praticamente morto. Quanti formaggi a latte crudo necessitano dell’uso dei fermenti altrimenti la coagulazione avviene con difficoltà?
A tutto questo si devono aggiungere gli effetti collaterali, quelli culturali, sui consumi, sui consumatori, sulla ricerca. Il paradigma di questa metamorfosi lo trovo nel Ragusano. Un formaggio di grande livello, prodotto con animali al pascolo, vacche Modicane autoctone, a latte crudo, riscaldato nelle tine di legno, maturazione lenta e senza fermenti, stagionatura in grotta, eppure il latte destinato a questo formaggio viene pagato solo due centesimi in più del latte industriale e il prezzo finale è di poco superiore a un banale formaggio. Il Ragusano e tutti i formaggi che hanno la sua stessa storia valgono dieci volte di più. Perché non esistono formaggi prestigiosi a prezzi alti? E’ possibile che chi compri una bottiglia di Champagne, spendendo cifre alte, non possa avere il piacere di pagare e di gustare un formaggio di pari livello?
Quindi, occorre uscire dalla logica del prezzo unico, occorre dare “a ciascuno il suo” prezzo, occorre dare prestigio e nobiltà a chi si sforza di cogliere il meglio e sfruttare al massimo le specificità di un territorio, occorre allargare la forbice fra il formaggio che costa poco e quello più costoso. Come? Differenziando il prodotto, sottraendolo alla logica concorrenziale e mettendo in condizione il consumatore di riconoscere che non si tratta di un prodotto omogeneo, standardizzato. Ciò consentirebbe di collocarlo in un mercato di concorrenza monopolistica, dando perciò, del potere contrattuale agli allevatori.
Certo, l’ideale sarebbe emulare quello che fanno i produttori di vino: ogni bottiglia ha il suo prezzo, ogni azienda non produce un solo tipo di vino. E il prezzo non è legato alla tipologia, al marchio comunitario. Si può comprare una bottiglia di Barolo con 10 euro ma anche con 200. Invece nel settore caseario le DOP sono diventare il problema, non la soluzione. Tutti i formaggi sono uguali e quindi i prezzi devono essere simili, al massimo diversi per stagionatura. Ci siamo rifugiati nella sola” stagionatura”, visto che non potevamo parlare d’altro.
Non possiamo, nell’immediato, svincolare il prezzo dalla tipologia casearia, ma possiamo almeno incominciare a differenziare i prezzi in base alla qualità del latte che esiste e che, ormai, sappiamo misurare.
La proposta delle Classi di qualità nasce da queste considerazioni e prende anche atto che, in fondo, alcune classi già esistono. Senza però che ce ne accorgessimo e senza averle portare a regola, a modello. In sostanza, è impensabile competere dal lato dei costi in un mercato globalizzato dove il latte è ritenuto un prodotto uniforme sia se proviene dai pascoli lucani che dalle pianure francesi. Occorre, invece, trasmettere al consumatore il messaggio che si tratta di latte diverso, non assimilabile a una commodity. (continua…)