di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Non so perché, ma da un po’ di tempo la grande ristorazione, quella degli chef stellati e stellari, mi annoia sempre di più.
Sarà l’età, ma tendo a perdere la pazienza quando vedo dei cuochi fare più i guitti in televisione che i professionisti, abbandonando le loro cucine agli aiutanti, per un senso di protagonismo che darà pure successo mediatico ma che crea, almeno in me, molte perplessità.
La prima. Ma possibile che nessuno dica che i ristoranti di molti di costoro sono costosissimi? Facciamo pelo e contropelo su tante cose, ma che da Cracco o da Bottura per cenare ci vogliono, vino compreso, anche più di 300 euro a persona non lo dice nessuno. Come non dice nessuno che la clientela di questi locali da tre e da due stelle è formata molto spesso da persone che vanno lì per status symbol e non perché apprezzino sul serio la loro cucina. Non voglio fare un discorso populista, ma ricordo che molti famosissimi ristoranti di New York, all’ora di pranzo, offrono dei menu ridotti a poco più di 20 dollari, e comunque è possibile assaggiare anche solo un piatto a un costo più che ragionevole.
La seconda. Ma siamo sicuri che dare a un sacco di giovani l’illusione di poter diventare grandi chef o anche solo di poter lavorare in grandi locali sia una cosa positiva? Qual è l’effettivo giro d’affari dei locali “top” in Italia? Che reale possibilità di creare posti di lavoro c’è davvero? In tanti anni che giro ho visto per lo più sale semivuote, tranne che in ristoranti con collocazioni particolarmente felici, in grandi città o in località turistiche. Forse è anche per questo che molti chef si danno alla televisione o si mettono a pubblicizzare acque minerali, patatine fritte e dadi da brodo. Tutte mercanzie che non troverete mai nelle loro cucine ma che vanno bene per sbarcare il lunario, alla faccia della qualità delle materie prime, del chilometro zero e di tutte queste belle cose.
La terza. Dare lo spettacolo di una cucina gestita con una violenza degna di un penitenziario di massima sorveglianza o di una caserma punitiva è davvero qualcosa di accettabile? Farà anche spettacolo, ma non mi sembra un esempio da seguire in modo acritico, e non mi pare che da parte della stampa si sia scritta anche solo mezza riga su questo o che qualche sindacato sia intervenuto.
Non tutti gli chef di valore sono così, ovviamente. Quelli che vivono la loro cucina con impegno, senza fare i fenomeni, ma solo bene il loro lavoro non fanno parte del ritratto che ho provato a realizzare. Soprattutto rispetto coloro che creano intorno al loro ristorante una vera economia locale, acquistando prodotti dai contadini o dagli allevatori del posto, assumendo personale del posto, facendo arrivare in luoghi isolati molta gente che ci va solo per la loro presenza. Penso a ristoranti come Caino di Valeria Piccini a Montemerano o il Reale di Niko Romito a Roccaraso o Le Colline Ciociare di Salvatore Tassa ad Acuto, tanto per fare esempi con nomi e cognomi. Molti però stanno esagerando e mi piacerebbe che si facessero un bell’esame di coscienza. Così come tutta quella sedicente critica gastronomica, in massima parte improvvisata, che non fa altro che esaltarli.
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