di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Saranno le calde giornate estive romane, oppure il fatto che scrivo prevalentemente schede di assaggio per la Guida Essenziale prossima. Sta di fatto che quando mi fermo a pensare sulle tematiche più centrali del nostro mondo di appassionati di vini e di cibi mi viene voglia di approfondire un po’ e di chiedermi alcune cose.
Ragionando a voce alta, o in questo caso a “tastiera veloce”, provo a mettere giù alcune considerazioni sul dualismo tradizione-modernità che talvolta ci rende tifosi dell’uno o dell’altro corno del dilemma. Intanto c’è da chiedersi cosa sia realmente la tradizione. Dal punto di vista etimologico il significato è “trasporto”, che in questo caso vuol dire che qualcosa viene “trasportato” attraverso lo scorrere del tempo più o meno come era all’inizio della sua storia. Se la intendiamo alla lettera, nulla nel campo enogastronomico può realmente dirsi “tradizionale”. Cambiano le materie prime, cambiano le tecniche di lavorazione, cambiano anche i gusti delle persone. Per quanto riguarda il vino, almeno in Italia, la pratica dell’imbottigliamento diffuso è stata piuttosto recente. Solo poco più di mezzo secolo fa il vino era consumato in prevalenza localmente e in prevalenza sfuso. Quasi tutte le icone enologiche che conosciamo oggi sono nate dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il Sassicaia nel 1968, il Tignanello nel 1970, il Barbaresco Santo Stefano di Giacosa e i Sorì di Gaja più o meno nello stesso periodo, tutti gli Amarone nei primi anni Cinquanta. Nel 1961 i produttori di Brunello erano cinque o sei, tanto per capirci.
Per di più molti vini che oggi riteniamo “tradizionali”, quando nacquero erano innovativi e rivoluzionari. Qualche nome? Le Pergole Torte di Sergio Manetti, i Chianti Classico di Fabrizio Bianchi a Monsanto, il Vecchio Samperi di Marco de Bartoli, il Bricco dell’Uccellone di Giacomo Bologna, il Soave Classico di Nino Pieropan. Tutti frutto di “eresie” all’epoca della loro nascita, di distacchi da pratiche consolidate, “tradizionali”, ma che recuperavano attraverso questo delle caratteristiche più territoriali, riscoprendole, e proponendole a un pubblico allora giovane e molto sensibile a tutto questo processo. Veronelli ne fu mentore e fece da amplificatore, e il mondo del vino ebbe un grande impulso mediatico da tutto questo.
Nello stesso periodo, a metà degli anni '70, nacquero chef come Gualtiero Marchesi, Angelo Paracucchi, Ezio Santin, che rinnovarono la cucina “tradizionale” con piatti che oggi fanno parte a tutti gli effetti della storia recente della gastronomia nazionale. Il risotto alla milanese con la sfoglia di oro zecchino, o “una seppia nel suo nero” di Marchesi sono l’equivalente mangereccio della Marylin Monroe di Andy Warhol, secondo me. E tutto questo, tutti questi personaggi, sono coloro che hanno dato vita a una sorta di “tradizione moderna” che non è “tradizionale” in senso stretto, ma lo sta diventando forse perché di “tradizione” non ne esiste una sola, e ogni periodo, ogni momento storico ne realizza una, diversa, che parte come grande innovazione e poi diventa un punto di riferimento culturale, se non storico. Per chi si occupa di arte o di musica questo è un ragionamento scontato, quasi banale, ma a vedere come invece ci si divide quando si parla di “luoghi dell’anima” come per molti sono i vini e i cibi, allora forse vale la pena di soffermarsi e di provare a interpretare. Ma forse è solo quel caldo delle sere romane d’estate che mi porta a pensarlo.