di Daniele Cernilli, DoctorWine
Le ultime notizie che arrivano sulla sorte della Ribolla Gialla non sono particolarmente positive.
Da qualche anno, complice anche un successo di mercato per vini in buona parte spumantizzati, c’è stato un boom d’impianti, che ha determinato un eccesso di produzione e un conseguente crollo dei prezzi per le uve. Non è una buona cosa, evidentemente, ed è stato anche un modo per banalizzare un vino di grande tradizione in Friuli Venezia Giulia. Ricordo solo che esistono testimonianze sulla presenza di Ribolla, anzi di Rebula, fin dal XII secolo, il che sta a dimostrare, se non l’autoctonicità del vitigno, che ha probabili e antichissime origini greche, almeno la sua appartenenza profonda alla vitienologia friulana. Nel mio piccolo e in quasi quarant’anni di frequentazioni “enoiche” nel Collio e nei Colli Orientali, di Ribolla ne ho bevute a centinaia, e prodotte e vinificate in modo talvolta molto differente, a dimostrazione della straordinaria ecletticità espressiva che questa varietà possiede. La prima in assoluto che assaggiai fu quella del 1978 prodotta a Farra d’Isonzo dall’allora giovanissimo Silvio Jermann. Un po’ ne usava per fare l’uvaggio del Vintage Tunina, ma a quell’epoca esisteva anche una Ribolla in purezza, quella che poi con alcune varianti divenne il Vinnae, e che era un bianco fruttato e fresco dalla bevibilità “pericolosa”. Ovviamente ce n’erano anche molte altre, soprattutto sui Colli Orientali, sulla collina di Ipplis dove c’era e c’è la Rocca Bernarda, poi a Rosazzo, e infine nel Collio, dove, se non ricordo male, persino Mario Schiopetto si cimentava da tempo con quella varietà. Silvio mi spiegò che la Ribolla Gialla doveva essere piantata in zone abbastanza fresche, per esaltare le caratteristiche di acidità. E la cosa mi apparve in tutta la sua evidenza quando alcuni anni dopo conobbi quella dei Venica, a Mernicco, nella parte più settentrionale e fredda del Collio.
Ben prima Manlio Collavini aveva iniziato a spumantizzarla con un sistema molto particolare, in autoclave ma per tre anni almeno, come gli aveva suggerito il professor Usseglio Tomasset, uno dei maggiori studiosi di enologia dell’epoca. Il risultato fu straordinario, e ancora oggi la Ribolla Gialla millesimata di Collavini è uno dei punti di riferimento irrinunciabili per capire le potenzialità di quel vitigno. Ben diversa dai molti, troppi spumantini anonimi che si fregiano del suo nome. A Gorizia e a San Floriano la storia fu molto diversa, e la Ribolla di Radikon e soprattutto di Gravner, dopo gli esordi più “convenzionali” e che durarono fino alla prima metà degli anni Novanta, divennero i portabandiera di una vera e propria rivoluzione viticola ed enologica, e furono gli emblemi dei cosiddetti orange wines che poi si diffusero in altre regioni e non solo in Italia. Per Josko Gravner rappresentò, e rappresenta tuttora, la varietà fondamentale. La vinifica in anfora, con macerazioni protratte anche per oltre sette mesi, e la fa uscire dopo almeno sette anni di invecchiamento. È un vino straordinario in senso stretto, che unisce vitigno, viticoltura e pratiche di vinificazione tesi al recupero di tradizioni ancestrali, culturali, e che nobilita una varietà attraverso un’enologia “sartoriale” e rivoluzionaria. Ma il discorso potrebbe continuare. E tutto questo per ricordarci che la Ribolla può essere ben altro rispetto alle banalizzazioni che se ne stanno facendo. E lo dico con un po’ di rabbia e con molta tristezza.