di Roberto Rubino*
Durante l’ormai consolidato appuntamento con l’evento “Estremi a confronto”, che ci divertiamo a proporre in giro per l’Italia per capire le differenze che possono esistere nell’ambito dello stesso prodotto, Fabrizio Carrera, patron di Cronache di Gusto, mi ha fatto una proposta “indecente”: perché non scrivi un articolo sui formaggi mettendo a confronto il sistema francese con quello italiano?
In genere questi sono divertissements che possono anche soddisfare la curiosità di qualche lettore, ma non apportano alcun contributo, perché sono tali e tanti gli aspetti da prendere in considerazione che si finisce per non arrivare a conclusioni convincenti. Ho accettato di scriverlo perché in Italia troppo spesso si cita la Francia come concorrente da superare o superato, ma credo che sia una gara con un solo concorrente, perché in Francia non si parla di noi. Naturalmente gli argomenti sono tanti, ma parto da un luogo comune per poi provare a entrare nei dettagli. Il luogo comune è che gli italiani sanno produrre, ma non sanno vendere. Al contrario i francesi, che fanno sempre lo stesso formaggio, coniugato in molteplici versioni, li sanno raccontare bene e vendere meglio. Come esempio scelgo il Roquefort e la Mozzarella di bufala. Entrambi hanno una immagine elevata, certamente maggiore del reale livello qualitativo e i prezzi si mantengono pari al prestigio: alti. Entrambi sanno vendere benissimo, anche se i produttori di mozzarella lo sono molto di più perché una cosa è vendere un formaggio dopo 3 mesi, con la possibilità di poterlo conservare per diversi altri mesi e una cosa è vendere, tutti i giorni, un prodotto che, almeno al Sud, il giorno dopo nessuno comprerebbe e che comunque ha una scadenza limitata. Però io ci trovo delle differenze sostanziali.
Il Roquefort si fa con il latte della pecora Lacaune. Negli anni ’60 del secolo scorso la sua produzione di latte era di 60-70 litri all’anno. I genetisti decidono di migliorarne l’attitudine lattifera e in 30 anni portano la media a 400, anche 500 litri. Ma i francesi si accorgono subito che la qualità del latte sta peggiorando. Grandi discussioni, liti e dimissioni del presidente del Consorzio. Alla fine rivedono il disciplinare, impongono il pascolamento, ma non in maniera tale da recuperare la qualità del passato, anche perché non affrontano il problema della quantità di mangime. Allo stato attuale, almeno al mio giudizio, il Roquefort resta un buon formaggio, fatto benissimo, stagionato nelle grotte, ma non ha più quella personalità che aveva negli anni ’80. Gli è rimasto però il grande prestigio e vive di rendita.
Al Sud la mozzarella di bufala, dopo un avvio stentato, negli anni ’80 ha preso il volo. Anche in questo caso i genetisti si sono messi all’opera portando la produzione di latte da circa 7 chili al giorno a circa 12-13 chili. Nessuno però si è posto il problema della qualità. Anzi, tutti dicono che è un latte di grandissimo livello. Tanto il prodotto tira forte in tutto il mondo. Non solo. Ma per reggere queste produzioni bisogna far ricorso ai mangimi e tanti. Che si riflettono negativamente sulla qualità. E parlo sempre di aroma, di odore e di gusto. E non basta. C’è poi il fieno, che in Italia, almeno dal Rubicone in giù, è quasi sempre di qualità modesta, per usare un eufemismo, mentre in Francia sono degli artisti, hanno persino un fieno Dop, Le Foin de Crau; il fieno è verde e profumato. Quindi, sempre per me, la mozzarella di bufala è fatta benissimo, ma il latte non è all’altezza e quel che è più grave è che nessuno se ne preoccupa. Nell’ultima variazione del disciplinare si è fatta una battaglia per decidere se ammettere il congelamento della mozzarella per l’esportazione.
Torniamo al generale e provo a sintetizzare il mio pensiero in due parti: l’offerta e la domanda. In Francia i produttori di latte ovino e caprino, normalmente, anche con la stessa pasta, producono una decina di varietà, quelli invece che hanno latte di vacca, spesso, ma non sempre, producono una sola tipologia. I caseifici invece quasi sempre spaziano sulle tipologie dell’area. Nell’Auvergne, un caseificio produce tutti e 8 i formaggi Dop del territorio, e stiamo parlando del Blu D’Auvergne, del Saint-Nectaire, del Salers, del Cantal, del Laguiole, del Pelardon, del Rocamadour, e della Fourme d’Ambert. Tutti a latte crudo. Nel Poitou Charente c’è un caseificio che lavora mille quintali di latte di capra al giorno, tutto a latte crudo e moulè à la louche, cioè la cagliata viene messa in forma a mano. E producono una decina di formaggi, molti Dop. Tutta questa variabilità la troviamo nelle fromageries, in negozi specializzati che ti lasciano incantati per come sono allestiti e organizzati. In una indagine effettuata quest’anno, in 207 locali è stato rilevato che in media sono presenti 213 differenti formaggi e 16 stranieri.
In Italia l’allevatore di pecore, così come il caseificio che raccoglie il latte (Sardegna docet) produce solo un formaggio che si chiama dappertutto Pecorino. Gli allevatori di capra che trasformano il latte sono pochi e comunque la variabilità è minima, tanto che non sapremmo fare un elenco di dieci nomi di formaggi caprini. Non diversa l’organizzazione dei produttori e dei caseifici che usano latte di vacca. Ogni zona ha il suo formaggio e si produce quasi solo quello o varianti su quella tecnica. Al Sud c’è la pasta filata e se entri in un caseificio o negozio trovi prodotti da pasta filata: mozzarella, treccia, caciocavallo. Al Nord le paste sono pressate o dure. Quindi i Grana, e tutti i pressati delle Alpi. Non ne parliamo dei negozi. Quante formaggerie specializzate si conoscono in Italia? Io che sto in questo settore da 40 anni, potrei elencarne una decina di buon livello. Non certamente organizzate come in Francia. Ma quante tipologie si vendono? Non certo 240 come in Francia e di stranieri, se va bene, nelle migliori, tre o quattro.
Vediamo ora la questione dalla parte del consumatore, premettendo che contano poco le stime nazionale relative al consumo pro capite perché in Italia quasi il 50% della produzione viene prodotta e utilizzata per grattugia. In Sardegna si dice spesso che nessun sardo ha mai mangiato il Pecorino Romano che, beninteso si produce quasi interamente nell’isola. Al Sud, dove vivo, si consuma da decenni molto Grana Padano e Parmigiano Reggiano, ma non conosco persone che lo mangiano, si usa sulla pasta e, non a caso, per fare la parmigiana di melenzane.
In Francia, se provate ad aprire il frigorifero di un consumatore qualunque, trovate il classico plateau dei formaggi con non meno di 4-5 tipologie diverse. E molti di questi formaggi sono a pasta molle o comunque da consumare in poco tempo. Come dicevamo, se si va in qualsiasi formaggeria o anche supermercato, la scelta è ampia e non solo dei formaggi della zona. E poi il consumatore francese ha una cultura gastronomica e anche casearia. Conosce bene la questione del latte crudo, della messa in forma a mano, dei pascoli e dell’alimentazione degli animali.
In Italia, nei nostri frigoriferi, se va bene, c’è un formaggio da grattugia e uno o due formaggi della zona. Chi vive al Nord prende stracchino o crescenza se vuole un fresco e un pressato se lo deve consumare con più calma. Al Sud, sempre un formaggio da grattugia e qualche pasta filata. E poi il consumatore non sa cosa sia il latte crudo, se vede i formaggi gialli dice che sono ossidati, anche perché una famosa industria casearia del Lazio qualche anno fa fece una pubblicità delle sue mozzarelle dicendo che, se questa era gialla, doveva essere scartata perché fatta con acido citrico. Dire due bestialità in tre parole è il massimo della comunicazione. La mozzarella, secondo quei signori, deve essere bianca. Verrebbe da dire: non c’è speranza, anche perché nessuno ha protestato o denunciato quel produttore. Attualmente sta passando in televisione la pubblicità del più famoso formaggio italiano, il cui messaggio è immediato e semplice: non usiamo conservanti o additivi. Conosco i formaggi di quasi tutto il mondo, ma non ricordo di essermi imbattuto o di aver letto di formaggi che usano i conservanti.
Chiudo con quella che mi sembra la differenza più importante e che sintetizza bene il divario. In Francia l’Inao, che è l’organismo statale di controllo e di certificazione delle Dop, ha imposto a tutti di rivedere i disciplinari di produzione in senso restrittivo, per aumentare la qualità del latte. L’imposizione più importante ha riguardato la quantità di mangime da distribuire alle vacche, che non può superare i 1.800 chili all’anno. Il che significa che ogni vacca al giorno non può ricevere più di 5 chili. Tanto per avere un’idea del vento che spira da noi, in genere i disciplinari non prendono in considerazione i mangimi, se ne possono dare a volontà. In media, ogni vacca riceve almeno 15 chili al giorno. E sto parlando di molti formaggi Dop famosi. Fanno eccezione solo alcuni formaggi quali il Parmigiano Reggiano che credo si attesti sui 10-12 chili, il Fior di Latte di Gioia del Colle, il Latte Nobile e il Latte Fieno, per i quali il disciplinare prevede un rapporto foraggio/concentrato di 70/30, quindi 6 chili al giorno. Naturalmente ci sono piccoli sistemi di produzione che non usano mangimi o in maniera minima, ma in generale la quasi totalità del mondo zootecnico non ha nemmeno messo in relazione la qualità del latte con l’uso dei mangimi. Che invece esiste ed è importante. Sintetizzo: a parte che gli erbivori dovrebbero mangiare erba e non semi (mangimi), le sostanze aromatiche sono contenute soprattutto nelle erbe e poi i mangimi, facendo aumentare la produzione di latte, hanno lo stesso effetto dell’acqua nel vino: ne fanno aumentare il volume ma ne diluiscono il contenuto.
Quindi è facile immagine quale potrà essere il futuro prossimo venturo: in Francia il recupero della qualità del latte terrà alto il livello qualitativo dei formaggi, mentre in Italia la pessima alimentazione degli animali e la non percepita importanza di questa alimentazione sulla qualità, ha innescato una deriva che allargherà sempre più la forbice tra Italia e Francia. Certo, non è che in Francia siano tutte rose e fiori, essendo molto bravi ed efficienti, hanno di molto ridotto la biodiversità animale. Inoltre, ho l’impressione che ancora sfugga loro un aspetto non secondario della questione: il gusto dei formaggi. Da cosa dipende? Quali le molecole implicate? Ma qui ci vorrebbe un altro articolo, forse ancora più lungo.
*Presidente Anfosc