(Alberto Lupini)
di Alberto Lupini*
Ovviamente l’importante è partecipare. Un po’ di spirito decoubertiano non fa certo male in Cucina, magari come antidoto agli eccessi di agonismo scatenati da format come MasterChef…
Ma poiché l’Italia non è l’Islanda o l’Ungheria, piazzarsi al 12° posto nella finale europea del Bocuse d’or (leggi questo articolo)ed entrare comunque in finale solo per il rotto della cuffia grazie ad una wild card (che premia la nazione ospitante), non è una cosa che ci possa galvanizzare. Forse sarebbe stato meglio restare esclusi dalla competizione come è avvenuto per i campionati mondiali di calcio in Russia. La squadra italiana (di ottimo livello a detta di molti osservatori) ha registrato l’ennesima sconfitta in una competizione dove le regole sembrano fatte apposta per selezionare piatti e procedure che nulla hanno a che fare con la nostra realtà. Si valutano impiattamenti e vassoi con elaborazioni o ingredienti che non sono certo in uso nella nostra ristorazione, che punta su creatività e materie prime di qualità. Che anche quest’anno si confermi in Europa una tendenza tutta nordica (norvegese, svedese e danese le nazionalità dei primi 3 classificati), la dice lunga sui criteri e le “politiche” che guidano la maggior parte dei giurati. E in ogni caso va detto, senza aprire inutili polemiche, che l’Italia non è mai salita sul podio dal 1987, anno di creazione del concorso, e spesso non è nemmeno andata in finale.
Ci sarebbe da chiedersi perché ci si ostini in un gioco un po’ tafazziano in cui mettiamo in gioco inutilmente una credibilità e un gradimento che la Cucina italiana ottiene da tempo in tutto il mondo. Mangiare italiano è un’aspettativa crescente in tantissimi Paesi, ma il Bocuse d’or sembra fatto per farci uno sgambetto. Lungi dal pensare che ci possa essere una qualche congiura ad excludendum ai danni dell’Italia, una volta per tutte bisognerà però aprire una riflessione su questo set che non riesce a darci un Oscar qualunque sia il team in gara. E stavolta sembrava davvero di livello quello composto da Martino Ruggieri, dal commis Curtis Mulpas (il migliore delle squadre in campo) e dal coach François Poulain. Per qualcuno sono poche le risorse messe in campo per sostenere questa competizione. Ma d’altra parte bisognerebbe capire chi dovrebbe metterci i soldi… Se le grandi aziende italiane stanno lontane da questo evento, ci sarà una ragione, che non può essere solo quella del “braccino corto”.
E se i risultati alla fine sono sempre all’insegna di una magra figura, perché non prendere in considerazione una qualche decisione risolutiva? O convincere il sistema Italia a giocare fino in fondo la partita mettendo in campo tutte le sue risorse, oppure accettare che con quelle regole non avremo mai spazio per vincere perché le caratteristiche della nostra Cucina e della nostra ristorazione sono nettamente diverse e lanciare quindi in alternativa un concorso italiano a valenza internazionale in alternativa a quello francese. Su questo piano si potrebbe magari immaginare una sensibilità del nuovo Governo interessato a rimarcare valori nazionali. Sfidare il resto del mondo a preparare piatti meno ingessati e meno costruiti per effetti speciali, ma fatti per valorizzare gusto e benessere, potrebbe essere la nuova frontiera di una Cucina in cui l’Italia ha tanto da dire.
*direttore Italia a Tavola