di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Il grande successo che ha avuto l’editoriale della scorsa settimana (leggi qui), mi spinge ad approfondire il tema con qualche considerazione di merito.
Ricordo bene che una delle critiche che venivano mosse allo chef catalano Ferran Adrià ai temi di El Bulli, il suo ristorante di Cala Montoj chiuso ormai da anni, era su un uso di tecniche di cucina molto vicine, se non identiche, a quelle della grande industria alimentare. Liofilizzazione di alcuni prodotti, applicazione di procedure che poi diventavano preda e venivano sviluppate proprio da aziende del genere. E comunque una serie di sistemi di cottura alternativi, come l’uso di azoto liquido, che somigliavano più a degli esperimenti di chimica che a delle pratiche di cucina. Per di più, proprio Adrià, e molti chef della sua scuola, se ne fregavano altamente del chilometro zero, del rispetto per le materie prime, che venivano considerate solo strumentalmente, per ottenere particolari effetti organolettici.
Mi ricordo la sorpresa con la quale lo stesso Stefano Bonilli, che portò Adrià in Italia a cucinare in una manifestazione del Gambero Rosso dei tempi d’oro, accolse la notizia per la quale il buon Ferran usava il granturco in scatola della Bonduelle, particolarmente dolce, per ottenere degli effetti particolari di sapore in un suo piatto. Sperimentazioni? O più semplicemente un sistema per trovare un modo nuovo di cucinare a tutti i costi, originale e artefatto allo stesso tempo? E la tecnica così non rischia di diventare uno sterile tecnicismo? Ora, se nel mondo del vino ci si sta orientando verso un recupero di vitienologia sostenibile, di rispetto per l’origine e i caratteri delle uve, addirittura con l’uso di lieviti indigeni e di basse aggiunte di anidride solforosa, perché per la cucina, e per quel particolare ambito definito “cucina molecolare” tutto questo, invece, non vale? E perché gli stessi supporters dei vini ecosostenibili sono talvolta dei portabandiera di questo modo d’intenderla?
Una contraddizione palese, che serpeggia fra neosteineriani e contemporaneamente sostenitori di quegli chef stellari la cui ricerca sta nell’esatta temperatura per le lunghe cotture sottovuoto, per la liofilizzazione di meravigliose verdure, per lo stravolgimento delle materie prime utilizzate per “épater le bourgeois” e per presentare conti stellari, ottenuti con la complicità di critici e di una clientela ricca e spesso incompetente, che non si accorge o non vuole accorgersi che il re è nudo.
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