di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Se vi capitasse mai di parlare con qualche appassionato di vino folgorato sulla via di Beaune, e quindi affetto da “borgognite cronica”, al solo pronunciare la parola “Amarone” vedreste il suo volto percorso da un’espressione a metà fra il disgusto e la sorpresa.
Quest’ultima per aver osato pronunciare il nome di quel vino così poco elegante, troppo alcolico, prodotto con uve appassite, oltretutto, che proprio non può essere nelle sue corde. È uno degli aspetti per i quali personaggi del genere non riescono proprio a cogliere il flusso degli eventi. Perché se oggi, a livello internazionale, esiste un vino italiano che sta conquistando i mercati di alto profilo di mezzo mondo questo è proprio l’Amarone. Tanto che sta sostituendo, come stile e come caratteristiche, quell’idea dei rossi “neobordolesi” che ha imperato almeno negli ultimi decenni. Quelli prodotti nel Nuovo Mondo, soprattutto, ma anche da noi, visto che molti cosiddetti Supertuscan sono ispirati a quei dettami stilistici ed enologici. Ora le cose stanno cambiando, e i rossi corposi, morbidi, alcolici, con un po’ di residuo zuccherino, rappresentano soprattutto nel Far East, quindi sui nuovi mercati, un preciso punto di riferimento per i big spenders interessati al vino in quei paesi, ma non solo. Sempre più famosi vini californiani e australiani, magari a base Cabernet o Syrah, hanno caratteristiche di leggera surmaturazione, mantengono percentuali di residui zuccherini avvertibili. I vini rossi cinesi di maggior profilo qualitativo sono anch’essi vini del genere. E tutti quanti ormai somigliano più a degli Amarone che a dei bordolesi classici.
Questo significa, in buona sostanza, che la prevalenza stilistica sta andando da quella parte e che proprio l’Amarone sta diventando un punto di riferimento sempre più paragonabile a ciò che sono stati, e in gran parte sono ancora, i Grand Cru Classé dell’Haut Medoc. Un fenomeno che si comincia a notare fin dai prezzi di vendita, che nel caso degli Amarone di punta sono schizzati a cifre inimmaginabili solo dieci anni fa, con la sola eccezione di Quintarelli e di Dal Forno che quella strada l’hanno percorsa per primi. Un fenomeno strettamente connesso al successo internazionale che l’Amarone sta avendo, con buona pace di chi continua a guardarsi l’ombelico e a non prendere atto di fenomeni di mercato che toccano anche alcuni vini italiani in modo molto evidente, ormai. Perciò, che piaccia o meno quella tipologia, e in questo caso direi che la cosa va considerata proprio al di là del gusto personale, è molto prevedibile che i grandi rossi del futuro, quelli che piaceranno ai nuovi consumatori magari russi o cinesi, saranno molto più simili a degli Amarone che a uno Chateau Lafite, anche se qualcuno, affetto da wine snobbery, potrebbe anche storcere la bocca.
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