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L'intervento

I vini prodotti dalle cooperative: “Non dobbiamo avere pregiudizi”

11 Luglio 2022
ph Florian Andergassen ph Florian Andergassen

di Daniele Cernilli, DoctorWine

Ogni tanto ricordo che più del 60% del vino prodotto in Italia e qualcosa più del 40% del fatturato è frutto dell’attività delle cantine cooperative.

Non voglio dire che sia tutto qualitativamente valido, ma questo vale anche per altri comparti vitivinicoli. Però le cose stanno così e l’evoluzione di molte aziende cooperative da noi è sotto gli occhi di tutti. Non vale neanche la pena di ricordare ciò che è accaduto in Alto Adige negli ultimi trent’anni, dove molte Kellereigenossenschaft sono ai vertici della qualità. O qualche nobile esempio piemontese, come i Produttori del Barbaresco, ma anche Vite Colte e Vinchio e Vaglio. Nel Sud, in Sicilia, c’è Mandrarossa, la linea dei vini migliori della Settesoli, poi la Cva di Canicattì. In Sardegna ne trovate quante ne volete, in Abruzzo idem, con Codice Vino e Tollo su tutte. Poi Vinea Domini di Gotto d’Oro e la Cantina del Cesanese nel Lazio, Moncaro e Colli Ripani nelle Marche, la Vecchia Cantina a Montepulciano in Toscana, i Produttori di Cormons in Friuli, la Cantina di Negrar in Valpolicella, Cavit e Mezzacorona in Trentino, con le loro consociate, la Cantina di Riomaggiore in Liguria, e persino qualche esempio di linee di vini cooperativi di buon livello in Puglia, in Umbria, in Emilia e in Romagna. Dappertutto, insomma.

Questo non significa che non esistano ambiti di cooperazione poco positivi, cantine che pagano poco e male i loro conferitori, che creano problemi d’immagine e di prezzo a diverse denominazioni, tutto vero. Però accade meno di qualche anno fa, con una maggiore ricerca della qualità e della sostenibilità che solo poco tempo addietro sarebbe stato impensabile. So bene che qualcuno non sarà d’accordo, però vorrei sommessamente invitare tutti a non avere pregiudizi. Tra le cose positive ci sono anche alcuni aspetti che magari sono meno conosciuti, perché il mondo cooperativo spesso comunica poco e in modo non troppo efficace, almeno nel settore dei fine wine. Uno è quello per cui se un progetto di viticoltura biologica o comunque sostenibile “passa” in una produzione cooperativa, poi coinvolge centinaia, a volte migliaia di viticoltori, che applicano dei protocolli in modo generalizzato e su produzioni non piccole. Il secondo è che proprio la cooperazione consente a minuscoli produttori di poter continuare a coltivare magari piccoli appezzamenti di vigneto, salvaguardando non solo la viticoltura, ma anche i paesaggi e la cura per i territori. Se non ci fosse o fosse ridimensionata avremmo parecchi problemi in quel senso. Tutte questioni importanti per la vitienologia italiana, senza per questo voler santificare nessuno, ma solo per proporre ragionamenti.

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