di Daniele Cernilli, Doctorwine
È vero, il primo Tignanello “ufficiale” fu quello del 1971, quindi gli anni sarebbero 49.
Però quelli della mia età si ricordano che già dal 1970 uscì un Chianti Classico Riserva del Podere Tignanello che rispolverava la vecchia etichetta bianca che fu del Villa Antinori fino agli anni Cinquanta, e che voleva rappresentare allo stesso tempo una riscoperta della tradizione aziendale ma anche un’evoluzione tecnica a livello produttivo. Sta di fatto che quel vino, quella Riserva del ’70, fece da apripista per quello che poi sarebbe stato il Tignanello e che era ovviamente in preparazione già da alcuni anni. Ed ecco perché penso che quel vino compia quest’anno il suo primo mezzo secolo di vita e non il prossimo. Detto questo, che alla fine ha un’importanza relativa, provo a raccontarvi come noi, a metà degli anni Settanta, abbiamo vissuto da giovani appassionati l’uscita di un vino del genere.
Per noi giovani enofili (ormai tutti dicono winelover, ma il significato è lo stesso) della fine degli anni Settanta era un oggetto del desiderio, si aprivano le bottiglie dividendoci la spesa, e rappresentava un grande rosso italiano del quale poter andar fieri. Era una delle prime volte. In più era modernissimo, il ’71 prevedeva l’utilizzo di sole uve rosse, nella fattispecie sangiovese per la quasi totalità con un pizzico di canaiolo. Vennero utilizzati fusti di rovere di Slavonia da 250 litri, e non le classiche e in Italia pressoché sconosciute barrique, almeno per quell’edizione, una cosa che mi raccontò Giacomo Tachis molti anni dopo. L’etichetta venne realizzata da un famosissimo designer dell’epoca, Silvio Coppola, che poi realizzò anche quelle dei vini di Ceretto e di Felsina, con un progetto davvero rivoluzionario, tanto che è rimasto con piccoli cambiamenti fino ad oggi. Fu, insomma, un vino “pensato”, con un progetto di marketing incentrato sullo smarcamento dalla denominazione Chianti Classico, che era un po’ appannata per delle politiche di prezzi stracciati che molti industriali e imbottigliatori praticavano su vasta scala.
Piero Antinori si rese conto che per quanto lui e poche altre aziende stessero facendo per rilanciare immagine e qualità di quei vini, sarebbe stato ben difficile opporsi a una politica commerciale che non andava troppo per il sottile, e a vini che talvolta non facevano onore alla denominazione stessa. Un ragionamento che era alla base di quelli che in seguito Nick Belfrage, scrittore e importatore inglese, chiamò Supertuscan. Il Tignanello partì così, un po’ in sordina, tanto che le successive annate ’72, ’73 e ’74, non vennero prodotte, anche per il valore medio basso delle vendemmie, e riapparve solo con la versione del ’75, la prima prodotta con l’uvaggio che poi divenne classico, con il cabernet sauvignon che partecipava per una percentuale del 20% circa accanto al sangiovese, e con l’utilizzo, stavolta, delle barrique francesi. Da allora Il Tignanello è divenuto un’icona dei vini toscani e italiani di qualità nel mondo. Oggi viene prodotto in diverse centinaia di migliaia di bottiglie, come un grande Château di Bordeaux, e da molti appassionati è considerato il pendant italiano proprio di quella categoria di vini. Costando però un quinto di quelli come minimo e un ventesimo delle etichette più prestigiose. Il Tignanello è un vino molto buono, con un prezzo ragionevole se confrontato con il livello di qualità e di affidabilità che esprime, e che ha fatto diventare la Marchesi Antinori una delle più importanti griffe enologiche del pianeta. Non è poco.