di Daniele Cernilli, Doctor Wine
La divulgazione di qualunque materia vagamente tecnica implica l’uso di un linguaggio che da specifico e talvolta gergale, riservato ai soli addetti ai lavori, possa diventare comprensibile e accattivante per una fascia più vasta di pubblico.
Sarà anche un’affermazione ovvia e scontata, però non è sempre così chiara, soprattutto a chi ritenesse, proprio attraverso l’uso di comunicazioni iper specialistiche, e quindi incomprensibili ai più, di dimostrare la propria competenza e di esercitare una sorta di superiorità intellettuale nei confronti del resto del mondo. Se poi il linguaggio da estremamente tecnico diventa gergale, autoreferenziale e ricco di comicità inconsapevole, la frittata è fatta e l’efficacia comunicativa va a farsi benedire. Nel mondo del vino la cosa è molto evidente. C’è chi confonde lo story telling con degli sproloqui sgrammaticati e retorici, chi pensa che raccontare le proprie sensazioni citando decine di riconoscimenti olfattivi possa risultare interessante, e non delirante, c’è chi usa termini ambigui, quando non ridicoli, e dà definizioni del tutto campate in aria sotto il profilo scientifico. Giornalisti, sommelier, blogger, appassionati che scrivono in rete, persino qualche enologo e qualche produttore.
Tutto questo allontana chi fosse solo incuriosito dal mondo del vino, lo esclude, lo fa sentire inadeguato. E la cosa curiosa è che molti dei cosiddetti “comunicatori” alla fine “comunicano” e talvolta male, solo all’interno di un gruppo ristretto di ascoltatori, senza fare proseliti e senza riuscire ad avvicinare al mondo del bere consapevole e informato un sacco di persone che sarebbero invece potenziali nuovi appassionati. Ed è ancora più curioso il fatto che in altri settori, quello della divulgazione scientifica, ad esempio, fior di esperti, giornalisti, scrittori, riescano a raccontare cose anche molto complesse con un linguaggio accattivante ed efficace. Penso a Piero e ad Alberto Angela, a Mario Tozzi, a Morgan Freeman.
L’altra faccia della medaglia sta nel fatto che divulgare non vuol dire banalizzare. Vuol dire spiegare, farsi capire e rendere interessante ciò che si dice, semplificando il linguaggio senza fagli perdere autorevolezza “scientifica”. Non è facile, ma se in campi ben più complessi di quello enologico qualcuno ci riesce, non sarà il caso di porsi qualche domanda? Non sarà arrivato il momento di riformare un linguaggio che non risulta efficace, tanto che l’argomento vino è sempre meno diffuso sui media più importanti?
Non voglio dire che tutto sia negativo e sbagliato, ma che troppe volte la materia viene trattata in modo poco accattivante, eccessivamente autoreferenziale, persino arrogante. E questo non rende giustizia alla diffusione e alla conoscenza di un mondo che è straordinariamente affascinante, se si offrono chiavi di lettura adeguate a un pubblico più vasto dei soli addetti ai lavori.