Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Salvo Foti
Ascoltavo il mio bisnonno e mio nonno con attenzione religiosa per carpirne tutta l’esperienza possibile.
Quasi con avidità guardavo i loro gesti, la loro manualità. Capaci di parlare, ragionare per ore senza per questo minimamente distrarsi dal loro lavoro. Gesti fatti migliaia di volte, ormai perfetti. Gesti comunque eleganti. Ripetuti con maestria e grande sicurezza e mai arroganti. Spiegati con empirismo, spesso con ingenuità, con fede. Gesti accompagnati da canzoni per aiutarsi, per tenere il ritmo.
E’ bastata una generazione, quella dei nostri padri, per interrompere questa continuità di gesti, di esperienza.
L’opportunità di un lavoro diverso, rispetto al duro lavoro di vignaiolo, ormai obsoleto e non più remunerativo, ha significato l’emigrazione per una generazione, figlia della terra, delle campagne, delle vigne. Drasticamente abbandonate.
Con l’emigrazione è andata via, per non più tornare, gran parte della civiltà vitivinicola della nostra terra. E’ iniziata così una nuova era, a due direzioni: quella della vecchia e secolare viticoltura, ad opera dei vecchi, sempre più esigua, ad ondate attaccata dalla modernità nelle sue forme peggiori e invadenti; e quella, più dilagante, della “moderna” viticoltura finalizzata quasi esclusivamente alla meccanizzazione e alla quantità.
La nuova viticoltura, con tutti i mezzi possibili, non importa in quali luoghi e come (il territorio e la sua vocazione è solo un fatto marginale), è stata così forzatamente adattata ai due nuovi “parametri qualitativi moderni”: più basso costo possibile e massima quantità.
Questo nuovo criterio produttivo è stato esteso velocemente ai vitigni, all’uso dei fertilizzanti, agli antiparassitari, ai coadiuvanti di cantina, con grande giovamento soprattutto per l’industria chimica.
In pochissimo tempo si è spazzato via un modello di viticoltura, sicuramente in parte empirico e ovviamente da migliorare, considerandolo come un male, da eliminare definitivamente.
Un bisogno di chiudere con il passato, di distruggerlo, in modo che non potesse più ritornare. Anche nel modo di pensare e fare, l’agricoltore moderno, ha assorbito pienamente questa nuova logica: è tutto, in poco tempo, tecnologicamente possibile!
Passata l’ondata, la piena, di questa nuova logica vitivinicola, da un decennio, si assiste ad una pressante esigenza di ritornare ai criteri di qualità e territorio della vecchia vitivinicoltura. In verità in alcuni casi anche in modo patetico, a tal punto da considerare le conoscenze tecnico-scientifiche, dell’ultimo mezzo secolo di vitivinicoltura, solo un male da rifiutare senza discussione, tuffandosi in modo deciso e sconsiderato nell’empirismo più totale. Ma si sa l’uomo è avvezzo a passare da un opposto all’altro.
Alcuni, con i lunghi tempi della natura, provano a ritessere una nuova tela, intrecciando i fili, ossia i concetti e le esperienze, delle due viticolture: quella della qualità e quella della quantità, con giusta e ovvia considerazione della meccanizzazione e del rispetto per il territorio. E così si sente la necessità di un sapere antico, di continuare quella esperienza vitivinicola secolare, di riconsiderare la vecchia vitivinicoltura dei nostri nonni, dei loro gesti, della loro operatività. Vogliamo sapere, capire e valutare, con le nostre attuali conoscenze, la tecnica empirica di questa antica sapienza vitivinicola. Ma ci accorgiamo che ci vengono a mancare repentinamente questi uomini, questi viticoltori-custodi, pressoché estinti.
Essi, anche se vivi, spesso, dediti ad una inattiva e penosa condizione di pensionati, rilegati, dalla nostra moderna società, all’inerzia totale nelle piazze dei tanti paesi agricoli e non insegnanti, maestri sapienti, di giovani a cui trasmettere la loro antica esperienza: i vecchi non hanno più motivo di parlare e i giovani nessun interesse ad ascoltare.
Noi, i viticoltori di oggi, siamo una generazione senza maestri diretti e dobbiamo tessere la tela della nostra esperienza e della nostra professionalità solo con i nostri pochi ricordi, e con la nostra ricerca tecnica e scientifica, che non può darci da sola tutte le risposte.
Non è solo la continuità e l’esperienza che abbiamo quasi definitivamente perso, ma anche i viticoltori autoctoni che sono sempre meno, sempre più vecchi, e bisogna sforzarsi di formarne altri che sempre più non sono locali, a quest’ultimi, spesso, non interessa fare i viticoltori.
Da tempo ormai, è tra gli immigrati che si cerca di trovare quelli più adatti a fare questo lavoro. La ricerca dell’immigrato a cui affidare le nostre vigne, ovviamente non è una scelta, ma una pressante necessità. Ci sarà sempre più l’esigenza di dare le nostre vigne ad altri uomini di diverse civiltà, costretti ad abbandonare la loro cultura (o disperazione) e a sforzarsi a diventare dei coltivatori di viti.
Da quindici anni ormai si perpetua l’esperienza de I Vigneri, viticoltori autoctoni etnei. Un piccolissimo nucleo di partenza, oggi arrivato ad alcune decine di persone, e altrettante formate nelle zone dove si è operato: Sicilia orientale, nord Italia, California. Attraverso la cultura dell’Alberello Etneo, che non abbiamo mai abbandonato, abbiamo cercato di tenere in vita questa antica arte vitivinicola, che, se saputa fare, non è solo un ottimo metodo per produrre dell’eccellente uva da vino, ma anche e soprattutto un’efficace strumento di costruzione del paesaggio e salvaguardia del territorio. In questi anni, in cui siamo stati anche oggetto di facili critiche, generate spesso da una ottusa ignoranza, abbiamo cercato di migliorare e trovare innovazioni tecniche, riuscendo ad ottenere risultati oltre le nostre aspettative.
Mezzo milione di viti impiantate ad alberello, dimostrano, prima di tutto a noi stessi, che non eravamo solo dei “poetici” visionari.
L’Alberello, che sembra ritornare “di moda” oggi, nella nuova era dell’Etna vitivinicola, è comunque un sistema di allevamento della vite difficile d’attuarsi, in cui la vera conditio sine qua non, da cui non si può prescindere, è la capacità e l’esperienza del viticoltore, che nessuna macchina potrà mai sostituire. La vite ad Alberello sull’Etna, in centinaia e centinaia di anni, ha convissuto e si è “coevoluta” con il viticoltore etneo, creando specifiche capacità viticole umane per un particolarissimo ambiente, unico nel suo genere. E’ con il fattore umano che la nuova vitivinicoltura etnea è costretta a confrontarsi.
Se è vero, come è vero, che dietro una bottiglia di vino oltre il territorio, il vitigno autoctono del territorio c’è anche e soprattutto l’uomo, con la sua civiltà e cultura vitivinicola, l’uomo autoctono, dobbiamo chiederci: chi sarà domani a coltivare le nostre vigne?