di Daniele Cernilli, DoctorWine
Ho conosciuto Bruno Giacosa nel febbraio del 1980, a Percoto, in occasione di una delle prime edizioni del premio Risit d’Aur dei Nonino.
Ero con Veronelli con il quale all’epoca collaboravo e avevo appena 25 anni. Durante un pranzo venne servito un vino che, pur essendo io alle prime armi, considerai fantastico. Dissi a Gino Veronelli: “Però, davvero buono questo Nebbiolo”. Lui mi rispose: “Disgraziato! Questo non è un semplice Nebbiolo, questo è il Barbaresco Santo Stefano di Neive del ’71”. Di fronte a me c’era un signore con gli occhiali che sorrideva assistendo alla scena. Era Bruno Giacosa. Mi scusai, mi complimentai e iniziammo a parlare dandoci del “lei”, cosa che poi è continuata per tutto il tempo nel quale ho avuto il piacere e la fortuna di conoscerlo. Giacosa, come molti sanno, è stato uno dei personaggi chiave del mondo di Langa. Per molti anni oltre a selezionare uve per la sua azienda – Barbaresco (la cantina è a Neive), Barolo, ma anche Arneis, del quale fu tra i primissimi produttori, e uno Spumante Metodo Classico da uve pinot nero, acquistate in Oltrepò Pavese – lavorò come consulente principalmente per Fontanafredda, per la quale procurava grandi quantitativi di uve nebbiolo in Langa.
Fino al 1996, quando acquistò Falletto di Serralunga, si avvalse di conferitori storici, che gli fornivano le uve ma coltivavano le vigne sotto la sua attenta supervisione. Aveva perciò un’esperienza unica e una conoscenza dei vigneti di Langa che forse nessun altro poteva vantare. Di aneddoti sui suoi vini ne potrei raccontare moltissimi. Uno riguarda un vino che non viene più prodotto, il Barolo Riserva Collina Rionda, e in particolare quello del 1982 che fu leggendario. Nel corso di una finale per l’assegnazione dei Tre Bicchieri eravamo a Bra, al ristorante Boccondivino, sede storica di Arcigola e poi di Slow Food prima dell’Agenzia di Pollenzo. C’erano, oltre al sottoscritto, Gigi Piumatti, Piero Sardo e Carlo Petrini, che allora era un fiero supporter dei “Barolo Boys” e del nuovo modo di vinificare che quel gruppo portava avanti. I produttori “tradizionali” non dico che venissero sottovalutati, ma ai nostri occhi erano più interessanti e “nuovi” quelli, allora giovani come noi tutti, che cercavano di fare i vini di Langa in modo diverso. Durante una degustazione, rigorosamente alla cieca, un vino divise la commissione. Io lo apprezzavo, gli altri meno. Però Petrini a un certo punto disse: “Fermi tutti, questo è un grandissimo vino. O lo premiamo o io mi incateno al tavolo finché non vi convinco”. Lo premiammo, per fortuna, ed era proprio il Collina Rionda dell’82.
Ma perché per un vino del genere ci dovevano essere discussioni? Perché, come ho provato a spiegare nell’editoriale dedicato alla degustazione cieca, certi vini si concedono con più lentezza. Hanno eleganza straordinaria, grande longevità, ma la struttura è meno impattante, sono più austeri, e in degustazione coperta rischiano di non essere capiti se non si presta loro la dovuta attenzione. Quello fu un caso emblematico, ma è spesso così per molti vini di Giacosa e anche di altri grandi protagonisti della tradizione langarola. Personalmente adoro i Barolo e i Barbaresco di Giacosa, specialmente quelli con l’etichetta rossa, che lui, e ora sua figlia Bruna, concedono solo a quei vini che ritengono particolarmente buoni. E credo che siano tra i più grandi vini del mondo. E come tutti i più grandi vini del mondo, da quelli di Rousseau alle grandi riserve di Biondi Santi, si esprimono in eleganza più che per la potenza e la grande struttura. Corrono la Maratona e non i 1.500 metri. E nel tempo riescono a raggiungere vette di complessità irraggiungibili per altri. Sono cose che s’imparano col tempo, ascoltando quei vini con attenzione e rispetto, e con la consapevolezza che se non li si capisce forse è un limite di chi li assaggia.