(Il Big Ben – ph Vincenzo Ganci)
di Daniele Cernilli, DoctorWine
Certo che gli esordi del 2020, anno “bisesto” che fa rima con “funesto” non sono stati dei migliori.
Non commento gli ultimi eventi internazionali, non avendo alcun ruolo per farlo, se non con un senso di preoccupazione tutto personale che penso sia condiviso da molti di voi. Nel nostro mondo vinoso, invece, i commenti e le previsioni li posso fare, credo, e le prospettive non sono per nulla incoraggianti. Se, come ha annunciato in mille modi, Boris Johnson porterà a compimento la Brexit ci saranno sicuramente dei contraccolpi. Forse non nei primi mesi, fino alla fine dell’anno, tanto per intenderci, ma di certo un mercato molto importante per l’export vinicolo italiano potrebbe essere colpito da tassazioni ulteriori rispetto alle accise in vigore attualmente. Noi esportiamo nel Regno Unito circa il 15% del totale, un mare di Prosecco, è vero, ma anche molti altri vini di fascia medio bassa di prezzo, che potrebbero facilmente essere sostituiti con prodotti simili provenienti dai Paesi dell’ex Commonwealth e del Sud America, Australia, Sud Africa, Argentina, Cile, in parte Nuova Zelanda, tanto per essere chiari. Prezzi che aumentano in funzione delle maggiori imposte rischierebbero di metterci fuori mercato in molti casi.
Proprio per tastare il polso della situazione, e senza la pretesa di essere decisivi ovviamente, il prossimo 3 di febbraio, con l’occasione di presentare a Londra l’edizione in inglese della nostra Guida Essenziale ai Vini d’Italia, e con un manipolo di produttori che ci affiancano e ci sostengono, sbarcheremo al Brown’s di Mayfair organizzando una degustazione e alcuni seminari dedicati ad alcuni fra i migliori vini delle cantine presenti. Parleremo con diversi importatori, con rappresentanti della stampa britannica, con sommelier locali, e cercheremo di farci un’idea su ciò che si prevede che accada. Sarà la prima manifestazione “after Brexit” e poi vi racconteremo come sarà andata.
Dall’altra parte dell’Oceano, negli Stati Uniti, nuvole tempestose sembrano avvicinarsi. La minaccia di dazi addirittura del 100% sui prodotti alimentari europei, e sui vini italiani in particolare, è piuttosto concreta. Lo ha di recente annunciato Wine Spectator, famosa rivista americana di settore, e imperversano discussioni con interventi autorevoli, uno persino di Angelo Gaja che negli Stati Uniti è sicuramente il produttore italiano più famoso e iconico. Se in Gran Bretagna è a rischio il 15% dell’export, negli Stati Uniti la percentuale arriva a sfiorare il 30%, con quasi 1,8 miliardi di euro in valore, una cifra che ci colloca al secondo posto per fatturato dopo la Francia e tra il primo e il secondo posto in quantità, dove battagliamo con gli spagnoli per il primato. Siamo sostenuti in modo straordinario dalla ristorazione italo-americana, è vero, ma aumenti di prezzi drammatici come quelli che si verificherebbero con tassazioni così alte determinerebbero una vera e propria catastrofe che travolgerebbe tutti, piccoli produttori come grandi cantine, indifferentemente.
Qualche anno fa una cosa del genere accadde in Brasile, un mercato infinitamente più piccolo, ma dove l’Italia esportava molto bene. Aumentarono la tassazione per favorire produzioni locali e sudamericane in genere, e la nostra quota di mercato divenne meno di un quinto di ciò che era. Questo solo per tratteggiare uno scenario già visto e che potrebbe riproporsi con ben maggiore impatto. Ricordo solo che vini come Barolo, Brunello di Montalcino, Barbaresco, Amarone e Chianti Classico hanno una percentuale di export che va dal 65 all’80% del totale prodotto e che percentuali vicine al 40% prendono attualmente la strada degli Stati Uniti. Dati impressionanti, che fanno capire quale sarebbe l’impatto sulla produzione vitivinicola nazionale. Una tempesta annunciata che non sembra sfiorare più di tanto chi dovrebbe provare a fare qualcosa per evitarla, e non solo in Italia. Perché se noi piangiamo, francesi e spagnoli di certo non rideranno. Anche perché da ridere in questa situazione io non ci trovo proprio nulla. E a chi dice che in fin dei conti ritorneremo a berci i nostri vini in Italia, è bene rispondere che si tratta di una battuta senza senso. Sono decenni che il comparto vitivinicolo si regge sull’export in tre Paesi, che ne rappresentano da soli più del 50%, Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna. Le cose stanno così, spostare quei fatturati sul mercato interno o verso Paesi diversi è semplicemente impossibile, facciamocene una ragione e ricordiamoci che la Cina per i vini italiani “pesa” all’incirca per il 2% dell’export, una goccia nel mare insomma, con buona pace di chi fa proclami senza pesare bene le quote di mercato.