Come trascorri le tue giornate in questo periodo?
“Al lavoro sempre. Io che negli ultimi tempi vivevo il mio ruolo come una sorta di regìa distaccata per consolidare rapporti e quindi sempre in giro, sono bloccato da quasi tre mesi tutti i giorni al computer al pari dei miei colleghi. Tutti in modalità smart working”.
Il virus?
“Abbiamo avuto tre colleghi malati nell’arco di una settimana con tutti i rispettivi familiari malati. Nessuno è mai intervenuto. Una collega è finita in ospedale. Finalmente ne è uscita. Potevamo essere contagiati. Le istituzioni non ci hanno mai risposto. I tamponi? Nulla da fare. Sono stati giorni terribili”.
Sei arrabbiato o rassegnato?
“Rassegnato mai. Ma il mio ottimismo lo devo ricaricare tutti i giorni”.
Alberto Lupini è il direttore di Italia a Tavola. Un giornale online, ma anche un network attento a rappresentare il mondo della ristorazione cogliendone stati d’animo, tendenze, prospettive. Spaziando verso tutto quello che con questa galassia può interagire. Lupini è un economista prestato al giornalismo enogastronomico. E la sua formazione affiora più volte durante la conversazione telefonica. Vive e lavora a Bergamo, la città italiana che più di altre è stata investita dalla tempesta di queste settimane.
Alberto, torno sull’argomento del giorno. Vi siete sentiti abbandonati?
“Siamo stati il cuore dell’epidemia. Qui è crollato tutto il mondo del benessere, dell’organizzazione sociale, in uno dei luoghi più ricchi d’Europa. L’impreparazione è stata totale. Totale come l’incapacità politica di gestire questa vicenda. Polemiche tra i partiti sulla mancata chiusura dei comuni, scontri, veti. Di tutto”.
Cosa dice la gente?
La gente è difficile anche sentirla. Il distanziamento qui è autentico. C’è scoraggiamento. Ma c’è anche forte il sentimento dell’essere bergamasco. E quindi la voglia di ripartire. Qui la gente ha sempre lavorato e questo spiega perché non si sono fatte le chiusure. Qui la gente nasce per lavorare. E se non si lavora non incassi. Sfumano i progetti, gli investimenti. Ma c’è anche il dolore. Gli anziani falcidiati, non c’è famiglia che non sia stata toccata”.
Perché Bergamo?
“Tutto è accaduto qui. Ma non so perché. Ma bisogna tornare al fatto che queste sono le terre più ricche d’Europa. Non c’è azienda che non abbia rapporti con l’estero”.
Italia a Tavola come va?
“Fuori da ogni logica abbiamo aumentato la visibilità online. Ma abbiamo anche bloccato la stampa della nostra rivista mensile. Non avrebbe avuto senso. Il quotidiano è cresciuto tantissimo. Abbiamo dedicato metà degli articoli all’epidemia. Con dei rischi. Ma non potevamo fare diversamente. Ci occupiamo di gastronomia e turismo in modo globale anche se il mostro mondo di riferimento ora è chiuso. Continuiamo a seguirli tenendo alta l’attenzione”.
Bergamo è la città di Luigi Veronelli, la provincia dei Cerea e di Bombana. Cosa resta oggi di tutto questo?
“Questo resta per fortuna. Con tutti gli aggiustamenti si dovrà riprendere. Quando non so, ma qualcosa si riprenderà. Molti cuochi si sono messi a disposizione per la comunità. Aiutano chi è in difficoltà. Ma voglio dire una cosa”.
Puoi dirla.
“Se parliamo di ristorazione ci sono territori e città in Italia che hanno tradizioni più importanti. Bergamo non ha grandi tradizioni. Ma la ristorazione qui è lo specchio di uno spirito imprenditoriale molto forte. Bombana è lo chef italiano più stellato nel resto del mondo e i Cerea l’azienda di ristorazione più importante d’Italia. Chef sì, ma soprattutto imprenditori”.
E Veronelli?
“Chi si affanna a tenere in piedi quel mondo, quel mondo non c’è più. Quel modello di valutazione e di analisi che sono in parte simboleggiati dalle guide è superato. Bocciato dalla storia. Veronelli? Lui è stato un grande innovatore e ha messo in movimento un mondo che in quel momento era ai margini. Dopo di lui il diluvio. Ci sono tentativi di imitazione che non hanno più senso. Tutto è cambiato. Le descrizioni dei piatti o, peggio, dei vini, non hanno più senso. I sentori di sottobosco del rosso e altre baggianate non servono più a niente. Bisogna trovare altri linguaggi”.
Un esempio?
“Se resto nell’ambito del vino ti dico che amo tantissimo le modalità dei francesi per presentare gli champagne. Da un paio di anni alcuni accostano un vino a una musica, una poesia, una opera d’arte. Alla fine è l’emozione che conta e non la descrizione da farmacista”.
Vuoi dire che la critica enogastronomica in Italia è da rifondare?
“Sì. Direi di sì. Sono un po’ eretico. Lo dico da tempo. Ma è così”.
Ritieni anche tu che la critica gastronomica sia una sorta di casta?
“Assolutamente sì. Che poi è quella che in una certa misura ha devastato il nostro mondo. Se oggi la ristorazione italiana è morta ed è da rifondare, e perché forse era anche la più debole che c’è in Europa. E sai perché? Perché questa casta ci ha indottrinato a base di spume, cotture a bassa temperatura, sifonati, fermentati…portandoci fuori strada. Dirottati da quelle che erano le nostre radici. Prendi i congressi di cucina dove tutte le ondate possibili sono state adottate. Pur di disorientarci. E ogni volta queste chiacchiere da salotto ci allontanavano da quella che è la nostra forza”.
Parole dure. Ma quale sarebbe la nostra forza?
“La nostra forza da un lato è che c’è uno stile italiano nel cibo e nell’accoglienza. Un rapporto personale che si instaura con il cliente. Il modello vincente non è quello dello chef che spunta in sala riverito da un pubblico osannante. Il modello della ristorazione è quello della famiglia intera di ristoratori che vive tutto con l’idea della comunità. Puntare tutto sul cuoco ha snaturato questo elemento. Dall’altra parte la nostra forza è il non perdere di vista la cucina legata ai nostri prodotti, all’equilibrio degli ingredienti. Ho visto piatti formati da venti ingredienti e magari una buona parte neanche italiana. Una esasperazione che sta facendo affossare la ristorazione italiana”.
Riproponi anche tu il braccio di ferro tra ristoranti gourmet e trattorie tipiche?
“No. Perché l’innovazione ci vuole. Ti cito un esempio. Alcuni anni fa ci fu un pranzo rapido con monoporzioni di lasagne di uno chef stellato dopo la presentazione della Rossa. Di certo una proposta innovativa. Ma una leggerezza e un sapore unici. Erano quelle di mia mamma e di mia nonna in un unico piatto moderno. Ma se tu mi porti venti ingredienti spezzettati, non capisco nulla, ci vuole la mappa per mangiarlo. Non ci appartiene”.
Immagino che nel breve periodo vedi un futuro migliore per le trattorie.
“Sì. Per assurdo è così. Pensa alle trattorie familiari di medio livello. Magari hanno anche i locali di proprietà. E sale più grandi. Resisteranno. Non c’è dubbio. Al contrario prendi i locali fighettini, posti curati con pochi coperti e cucine dove non puoi girarci dentro: come faranno a riaprire?”.
È la ristorazione gourmet…
“Esatto. La vedo in difficoltà. La maggior parte dei ristoranti a una Stella hanno in media 30 coperti. E magari 30 dipendenti. Non c’è lo spazio fisico. Come faranno a stare sul mercato. Non è pensabile che tutti facciano asporto. Devi avere le attrezzature, lo stato d’animo, l’organizzazione per andare avanti. E credo anche che la Guida Michelin 2021 non ci sarà. Come fai stampare una guida con i locali chiusi? Lo stesso vale per le altre”.
E le pizzerie?
“Vale lo stesso principio. Non ci saranno più locali con una offerta di 30/40 pizze. Basta. È finita. Nove-dieci pizze al massimo. E niente tavolate per i primi periodi della ripartenza. Dovrai fare meno cose. E tornare a una pizzeria tradizionale con ingressi contingentati e turni”.
Mi pare una visione non proprio allettante.
“Sarà un periodo transitorio. Poi si ristabiliranno gli equilibri. Voglio tornare ad abbracciare la gente. Ci vorrà del tempo. Non so, forse due anni”.
Da giornalista che segue il cibo le cose che ti piacciono di più?
“Tutto. Faccio prima a dirti cosa non mi piace come il sedano, il prezzemolo, tutto ciò che è invasivo. Apprezzo tutto se è fatto bene”.
Il tuo pranzo di Pasqua?
“Confinato a casa. Con mia moglie. Ho ordinato un pranzo a domicilio. Tortino di verdure, uova sode. Ravioli al capretto e capretto al forno a legna, patate. E pastiera. C’è uno bravo qui a Bergamo…”.
Fabrizio Carrera