di Titti Casiello
Indro Montanelli amava dire che per essere dei bravi giornalisti bisogna consumarsi le scarpe.
E non è un caso, quindi, che in una mostra tenutasi qualche anno fa a Milano, “Terra nelle scarpe”, in bella vista c’erano proprio gli stivaletti che Toni Capuozzo del Tg5, portava in Libia durante la rivoluzione e quelli di Ettore Mo – inviato di guerra del Corriere della Sera – durante il conflitto in Afghanistan. Valevano una teca, però, anche le scarpe indossate da Mario Soldati in quel lungo viaggiò che, nell’autunno del ‘68, lo portarono in giro per l’Italia enologica, in un banco d’assaggio da nord a sud del Paese. Settimana dopo settimana, era la rivista “Grazia” a raccontare agli italiani di quei viaggi, fino a quando nel ‘69 Mondadori non decise di pubblicare l’intera raccolta in quella che sarebbe diventata, poi, la mappa italiana dei vini, con “Vino al Vino. Alla ricerca dei vini genuini”.
Sono passati più di 50 anni da quella prima edizione (oggi pubblicata da Bompiani) e Soldati continua ad essere il Google maps di riferimento per i veri appassionati di vino. Perché la verità è che non si può parlare di vino se non si va a conoscerlo. Non si può scrivere di vino dal divano di casa, senza sporcarsi le scarpe. Chi scrive ha una responsabilità e un dovere morale verso il lettore e non basta conoscere solo la strada che dall’enoteca arriva fino a casa per poter parlare di un vino e soprattutto di chi l’ha prodotto. L’Irpinia potrebbe essere in Alto Adige così come in Campania per chi ha scritto di Taurasi senza aver mai visto una vigna di Aglianico. Ma così facendo si corre il rischio di leggere recensioni di vini alle quali si aggiungono, necessariamente, supplementi di creatività non richiesti. E se il male minore, di tutto ciò, potrebbe essere considerata solo l’affabulatoria prosa del non viaggiatore, quello peggiore è, però, che le notizie che rilascia attecchiscono nel lettore, si diffondono sul web, diventando verità granitiche. Perché viviamo in un’epoca fatta di parole brevi, tra post su instagram, che sono diventati i nuovi concentrati di cultura, e profili Facebook, visti come gli attuali spazi per riassumere conoscenze in meno di tre righe. Così stiamo imparando a leggere di vini e produttori, condensando i libri. Anzi, dimenticandoli.
Eppure se la legge italiana non ammette ignoranza, Dio ci salvi, neppure l’etica del giornalismo dovrebbe consentirlo. Per scrivere di vino bisogna almeno essersi presentati a lui. Essere andati a casa sua. Certo qualcuno potrebbe dissentire, non si può fare il giro del mondo, e visti, poi, gli attuali tempi, una pretesa simile diventa, pressoché irragionevole. Ma una cosa si può fare, però: essere curiosi. Che equivale a leggere. Ad informarsi. E così scoprire, grazie a Mario Soldati, che esiste il “vino di Milano”. Sì, Milano. Che pare assurdo immaginare che in una metropoli che cerca, paga ed esalta i vini di tutto il mondo, si produca, invece, alle pendici della collina di Montevecchia, un vino “da pasto affascinante, non inferiore, nel suo genere, a nessun altro”. Sarebbe stato contento, poi, Soldati di sapere che la sua previsione sul Rinforzato di Tramonti non si è avverata: “Tempo quarant’anni, non ci sarà più [..] il vino di Tramonti”. E invece quella parte della Liguria enoica ha continuato a regalare quel “misto di Uva Trebbiana e Uva di Bosco [..] stesa in cassette sui tetti o sui muretti al sole, e ritirata ogni sera [..] per sottrarla alla guazza notturna”. Da quel ‘75 ad oggi il Rinforzato è rimasto, infatti, tra le perle enologiche liguri cambiando solo nome, e oggi è meglio noto come Sciacchetrà.
(Uva in appassimento per produrre Sciacchetrà)
E non serviranno brochure o mappe della Città di Napoli per visitarla, ma basterà leggere le pagine che spingono Soldati in quella ricerca matta e disperata del Gragnano perduto e che lo portò a girare tra i vicoli di Napoli e di tutta la provincia campana, per arrivare poi finalmente a Lettere, dove “a picco sulla piana di Pompei, in vista di Castellamare e del Golfo, delle isole lontane e del Vesuvio” ritrovò il sapore di quel Gragnano che bevve nel ’43 da Don Luigi, lì in una traversa di Via Toledo, al secondo vicolo del teatro nuovo, (a sinistra per chi viene da piazza San Ferdinando, precisa ancora Soldati). “Il Savuto è il vino più celebrato della provincia di Cosenza”. Ma chi l’avrebbe mai saputo se non leggendo la pagina 556 di quel libro? O che “sta a Cosenza come [..] il Cirò sta a Catanzaro”, e delineando, così, in appena due righe, chiare e nette, la geografia di una regione. E se oggi navighiamo in un fiume di aggettivi sempre più bizzarri e pomposi per recensire vini, che non trovano una connessione logica con la terra dalla quale provengono, ecco che, nuovamente, Soldati docet, liquidando e cristallizzando in una descrizione organolettica, un vino e il suo territorio: “così l’Etna Bianco raccoglie e fonde, nel suo pallore e nel suo aroma, nella sua freschezza e nella sua vena nascosta di affumicato, le nevi perenni della vetta e il fuoco del vulcano”. Perché il vino, e la sua descrizione, non devono essere particolari, ma, appunto, territoriali. Un lungo divagare per arrivare ad un punto, e il punto è che non si può parlare di vino, se non si è letto, almeno una volta, “Vino al vino. Alla ricerca dei vini genuini” di Mario Soldati. Questo è il punto.