Come tutte le passioni, anche quella della famiglia Armani per i vitigni autoctoni non conosce barriere né tantomeno confini.
Nata fra i chiaroscuri trentini del Monte Baldo e della Vallagarina, l’attrazione per le varietà indigene e ormai dimenticate si estende oggi nell’Alta Grave Friulana, a Valeriano, e dà vita al progetto Terre di Plovia. Là, dove il soffio dell’aria si raffredda sulle Alpi e sull’acqua del Tagliamento per correre poi tra le vigne, l’azienda ha portato il suo modo di lavorare – o meglio, di guardare – il vitigno, valorizzandone l’identità, sia genetica sia geografica. Non uno strumento di produzione, non un baule da forzare, non un pozzo da esaurire, ma un individuo capace di contenere la storia, la cultura e la varietà di un intero territorio. “Cosa rende un vino grande con la G maiuscola? – si domanda Albino Armani – Non il prezzo, non la fama, non i punteggi della critica, ma la sua capacità di portare il peso di un’identità e di comunicare il territorio che lo rende unico, perché nessun posto, nessuna cultura, nessuna tradizione è replicabile altrove”.
Un nuovo lido per lo studio sulle varietà autoctone, quindi, che da sempre caratterizza l’attività aziendale. Già noto al mondo vitivinicolo per l’incredibile ricerca sul vitigno Foja Tonda, sul ciglio dell’estinzione, e per la sua preziosissima Conservatoria (un vigneto che ospita al suo interno 13 varietà indigene della Vallagarina oggetto di studio e di tutela), la famiglia di viticoltori dal 1607 presenta oggi il suo progetto friulano a scoperta e valorizzazione dell’autoctono. Terre di Plovia è un progetto ambizioso, realizzato grazie alla collaborazione con Walter Filiputti. Un tempo vignaiolo, oggi docente e scrittore, Walter ha condotto tutta la sua brillante carriera nel segno dell’autoctono. Ci ha sempre creduto Walter, fin da quando affiancava Veronelli nelle sue battaglie per la conservazione delle varietà “veraci”, soppiantate in quegli anni dai più produttivi – e certamente più remunerativi – vitigni internazionali. Terre di Plovia asseconda i sogni dei romantici e sazia la fame di ricerca degli scienziati, sintetizzandosi in una possibilità di scoperta come poche, poiché un calice di Terre di Plovia contiene in pari quantità vino e cultura, varietà e ricerca, succo e storia. “Le autoctone – racconta Walter – non sono uve facili. Antiche, affascinanti, complesse, ma fragili. Vanno ascoltate, accudite e studiate, cercando di entrare nella loro anima più profonda per coglierne la personalità originaria, che poi è il motivo per cui Terre di Plovia è nata. Perché occuparsi di questi cimeli dell’enologia deve far parte di un dovere etico e sociale, per restituire almeno una parte di ciò che a noi è stato dato”.
A lui fa eco Albino, con la sua filosofia agricola che pone la pianta al centro di tutto, punto di partenza e di arrivo nel procedimento di vinificazione: “nel fare un vino è la pianta che comanda, non il produttore. Un vino va realizzato assecondando la natura della varietà: il nostro compito è solo quello di imparare ad ascoltarla e comprenderla”. Terre di Plovia si presenta sul mercato con due referenze. Un bianco e un rosso, entrambi composti da varietà internazionali affiancate sensibilmente da due varietà autoctone, tanto sconosciute quanto promettenti. Si tratta dello Sciaglin e del Piculit Neri, rispettivamente attori del bianco Flum e del rosso Piligrin. Flum è un omaggio al fiume (flum significa precisamente fiume nella lingua friulana), a quel Tagliamento che influenza l’aria e disegna la terra della Grave. Predomina lo Chardonnay, reso ancor più elegante dalla presenza di Friulano e di Sciaglin. Vitigni di profonda matrice locale, incredibilmente complementari e “migliorativi” della bacca bianca internazionale per eccellenza. Piligrin è un cenno alla storia dell’Alta Grave Friulana, terra di passaggio dei pellegrini che, diretti in Terra Santa, percorrevano il Cammino del Tagliamento attraversando Terre di Plovia. Il Piculit Neri, qui, spartisce il palcoscenico con il Merlot, generando un fresco connubio dove il frutto emerge con vitalità.
Lo studio di Albino Armani e Walter Filiputti sulle varietà autoctone della Grave Friulana non si limita al mero scopo produttivo. Esso è, innanzitutto, una tutela della biodiversità, custodita nel forziere dei vigneti Terre di Plovia. La variabilità degli individui sarà infatti garantita da una replicazione attuata attraverso la selezione massale, così da scardinare la pericolosa omologazione dei cloni. Un tema piuttosto delicato, che sempre di più oggi interroga il mondo vitivinicolo e vivaistico. Una scelta, ancora una volta, coraggiosa, dettata dalla passione che muove la marcia in direzione contraria, proprio come i vitigni autoctoni di Albino Armani.
C.d.G.