(Alessandro Gambino)
di Stefania Petrotta, Palermo
A Palermo due sono le feste impedibili per gli amanti del buon cibo: Santa Lucia, il 13 dicembre, e San Giuseppe, il 19 marzo.
E se Santa Lucia chiama arancina, San Giuseppe è un tripudio di pasta con le sarde, pani di San Giuseppe e, soprattutto, sfince con la ricotta. La devozione al “patri arcanu”, il patriarca Giuseppe, è molto sentita in tutta l’isola. In ogni famiglia vi è qualcuno che porta il suo nome e il santo è il protettore di innumerevoli categorie: dalla famiglia ai lavoratori, dagli orfani alle ragazze nubili, dai falegnami ai procuratori legali, dai moribondi alle cause perse. Ma di certo, se c’è una dote che gli viene riconosciuta, è quella dell’umiltà, come umili, in origine, volevano essere i piatti a lui dedicati. E mentre per i salati, il palermitano si limita a consumarli durante i pasti principali, per la sfincia, che proprio umile non è, il 19 marzo è un mangiarne senza soluzione di continuità. Dalla colazione al mattino al dolcino prima di andare a dormire, la sfincia impera quasi al pari dell’arancina per Santa Lucia. Qualsiasi casa le produce e naturalmente, per i poco avvezzi alla cucina o per chi non ha tempo, i bar straripano di queste frittelle guarnite di ricotta dolce. “Per questa occasione – racconta Enrico Gambino, proprietario del Sampolo 246 – arriviamo a prepararne dai tremila ai quattromila pezzi. Noi le teniamo in produzione da fine settembre fino a Pasqua, sia perché ci teniamo ad usare solo ricotta fresca che, appunto, si trova solo in questo periodo, sia perché con l’arrivo della bella stagione i nostri clienti le abbandonano per dolci più leggeri. Però il giorno di San Giuseppe è davvero un delirio”.
L’origine di questo dolce non è certa. Di sicuro si offrivano frittelle similari durante la festa in onore di Demetra, divinità greca delle messi e durante quella dedicata al Liber Pater, dio romano della famiglia e della fecondità dell’uomo e della terra. Pare inoltre che ve ne sia traccia già nella Bibbia e nel Corano e, in linea di massima, i cultori concordano che sia l’evoluzione di un pane dolce persiano fritto. È Michele Amari nel suo libro “Storia dei Musulmani di Sicilia” a darcene certezza “(…) sono rimasti arabi di nome e di fatto in Sicilia i camangiari. De’ camangiari vanno notate le paste fermentate e fritte che in Sicilia, al par che in Barberia (Magreb), si chiamano sfinci, dal latino spongia”. Ma che il nome derivi dal latino, dal greco o dall’arabo, il concetto è lo stesso dello sfincione, altro piatto sovrano dello street food palermitano, ovvero un impasto spugnoso, alto e ricco di ampie alveolature all’interno. Nel caso della sfincia, sono talmente ampie che, se fatta bene, risulta quasi vuota all'interno ma croccante e saporita all’esterno. Come spesso accade per i dolci siciliani, sono state le suore del Monastero delle Stimmate di San Francesco di Palermo (demolito nel 1875 per consentire la costruzione del Teatro Massimo e della circostante piazza Giuseppe Verdi), un monastero che poteva ospitare soltanto 50 suore rigorosamente scelte tra l’aristocrazia palermitana e, per tale motivo, conosciuto come “Monastero delle Dame”, ad elaborare la versione che è arrivata fino a noi oggi.
“Si tratta di un impasto morbido – spiega Gambino – a base di farina, acqua, strutto e uova. Si parte dal miscelare acqua e strutto, poi si aggiunge la farina e pioggia e infine le uova intere, una alla volta, insieme a un pizzico di sale, fino ad ottenere un impasto liscio ed elastico. A quel punto si può già friggere, perché non ha bisogno di riposare, gettandolo a cucchiaiate nell’olio a 165 gradi. Un tempo si utilizzava lo strutto per la frittura, noi preferiamo l’olio di palma perché non ne inficia il sapore, non rilascia cattivo odore e oggettivamente ha una resa migliore. Fondamentale è infatti che la sfincia sia buona anche senza condimento, perché è dalla resa della pasta che dipende la riuscita del dolce. Una volta pronte, si decorano con ricotta di pecora lavorata con lo zucchero e le gocce di cioccolato e scorzetta di arancia candita. Il giorno di San Giuseppe, oltre alla guarnizione, usiamo anche riempirne l’interno di ricotta, perché ai palermitani piace molto, oltre a fare delle varianti al cioccolato, alla crema e al pistacchio che naturalmente vendiamo in minore percentuali rispetto alle tradizionali”. Ma qual è l’hit parade dei dolci tradizionali per i palermitani? Enrico Gambino non ha dubbi: vince la cassata, seguita dal cannolo. Alla sfincia è riservato il terzo posto. Diremmo, una buona posizione considerato che in prevalenza si mangia solo il giorno di San Giuseppe.