di Ambra Cusimano
Il pomodoro, le cui origini risalgono all’America Latina, è uno dei prodotti cardine della penisola italiana.
La Sicilia fu verosimilmente la prima regione italiana che conobbe questa pianta, grazie alla diretta influenza spagnola sull’isola. La coltivazione di questo frutto avviene prevalentemente in ambiente protetto, tramite l’utilizzo di serre o tunnel coperti, di antiparassitari ed antifungini. Grazie a queste tecniche e alla presenza di varietà ibride, è possibile trovare il pomodoro durante tutto l’anno, facendolo divenire una delle specie più destagionalizzate sul mercato. L’uso di queste varietà provenienti dalle multinazionali delle sementi, che hanno subìto un miglioramento genetico, garantisce un’importante ed immediata risposta produttiva. Un esempio è il pomodoro di Pachino Igp e delle sue quattro tipologie: Tondo Liscio, Costoluto, Plum e Miniplum e Ciliegino. Nonostante sia oggi un prodotto largamente apprezzato, anche a livello internazionale, si tratta di un modello varietale ibrido. Il Consorzio di Tutela quest’anno (il 31 agosto) festeggerà vent’anni di attività. “Va dato merito a tutti quegli agricoltori e organizzazioni di produttori che hanno saputo fare unione tra loro costruendo dei modelli di sviluppo e valorizzazione del prodotto con le denominazioni di origine”, dice Francesco Sottile, ricercatore e professore di Arboricoltura generale e Coltivazioni arboree dell’Università di Palermo.
Ma queste varietà non hanno nulla a che vedere con il territorio di provenienza, per cui l’agricoltura nel caso specifico del pomodoro, ha perso la sua originale vocazione tradizionale per trasformarsi in un prodotto prettamente industriale. Gli agricoltori che scelgono di avvalersi di varietà ibride diventano schiavi di un sistema che li costringe a comprare ogni anno nuove piante dalle multinazionali. Il perché? Perché i semi delle piante ibride non sono fertili. Il discorso cambia quando si tratta di varietà tradizionali, che si sono co-evolute con il territorio. Tra queste il pomodoro siccagno di Valledolmo, il pizzutello delle Valli Ericine, il pomodoro buttiglieddru di Licata, il costoluto dell’area Corleonese. In questo caso l’agricoltore è direttamente coinvolto nel recupero del seme che potrà essere conservato per essere piantato l’anno successivo. Un tempo, il primo pomodoro ad essere immesso sul mercato durante l’anno, a metà aprile, era quello di Licata, conosciuto come “buttiglieddru”, divenuto anche Presidio Slow Food nel 2020. Le varietà tradizionali vengono coltivate a pieno campo secondo le tecniche tradizionali e di aridocoltura, che implica un notevole risparmio idrico e quindi un minore impatto energetico. “Questi pomodori li definirei identitari della vocazionalità ambientale siciliana – continua Sottile – Questi prodotti devono essere valorizzati anche attraverso il loro utilizzo nella gastronomia da parte di quella ristorazione consapevole e responsabile”. Queste varietà sono quelle con il minore impatto ambientale e di conseguenza sostenibili. Lo sono perché le tecniche e le circostanze adoperate per produrli sono amiche dell’ambiente. Esse aiutano a mitigare il cambiamento climatico e a conservare gli ecosistemi territoriali. “Quando l’agricoltore ogni anno recupera il seme della propria varietà, significa che sta accompagnando l’evoluzione della stessa varietà rispetto al clima in cui cresce. Inoltre non bisogna dimenticare come variano i costi di produzione tra il primo ed il secondo caso”, conclude Sottile. Consumare i prodotti nel giusto periodo dell’anno, seguendo la stagionalità, è un’abitudine che abbiamo perso ma che dovremmo riesumare per evitare un impatto negativo sul nostro pianeta.