di Lorella Di Giovanni
“Semi nutrienti per un futuro sostenibile”, con queste parole la Fao ha dichiarato il 2016 l’Anno Internazionale dei Legumi, con il proposito di aumentarne la conoscenza sulle proprietà nutritive, farne scoprire i vantaggi di una loro (re)introduzione nella dieta alimentare e incrementarne la produzione e il commercio.
A livello globale e in una dimensione locale, la produzione di piante proteiche si prefigura strategica sia per ragioni alimentari, sia per questioni legate al cambiamento climatico, alla promozione della biodiversità e alla migliore gestione delle risorse naturali, senza tralasciare il potenziale effetto sui redditi degli agricoltori.
Per la salute umana e la sicurezza alimentare, tutti legumi, poveri di grassi e ricchi di fibre, sono una buona fonte di proteine vegetali e abbinati ai cereali, come nel caso della pasta e fagioli, riso e lenticchie, pasta e ceci, raggiungono una composizione di aminoacidi essenziali paragonabile a quella della carne. Il loro alto valore nutritivo li rende perfetti per combattere la malnutrizione, intesa sia come mancanza di cibo sia come, al contrario, eccesso di cibo.
Nel contesto del cambiamento climatico, la produzione di colture proteiche può contribuire a ridurre le emissioni di gas a effetto serra attraverso l'assimilazione e la fissazione di azoto nel terreno (pari fino a 100 chili di azoto per ettaro al mese), riducendo di conseguenza l'uso di fertilizzanti azotati di sintesi, il cui potenziale di riscaldamento tramite il protossido d'azoto è trecentodieci volte superiore al biossido di carbonio.
In termini di fertilità dei suoli, una maggiore percentuale di colture proteiche, nel quadro di un maggiore impiego dei sistemi di rotazione e avvicendamento delle colture, contribuisce a uno stoccaggio più equilibrato degli elementi nutritivi, a una minore acidificazione dei suoli, a una maggiore resistenza alle malattie nonché a una migliore struttura dei suoli, a un ridotto utilizzo di erbicidi (agricoltura sostenibile) e a una maggiore biodiversità favorevole all'impollinazione.
Oltremodo, l'utilizzo delle leguminose da foraggio o da granella provenienti da varietà locali e regionali, al posto delle proteine importate (panelli di soia), può generare dei cambiamenti rilevanti nei metodi di allevamento convenzionale vs allevamento biologico e dunque contribuire a un miglioramento della qualità dei prodotti agricoli e dei redditi dei produttori.
A livello mondiale, l’India è il principale produttore di leguminose da granella ad uso umano, l’Australia, il Canada e la Turchia sono i maggiori fornitori mondiali di cece e lenticchie mentre l’Unione Europea presenta la maggiore produzione mondiale di pisello, principalmente per uso zootecnico.
Nell’Unione Europea, negli ultimi venti anni, la superficie comunitaria destinata alle coltivazioni proteiche si è dimezzata attestandosi a poco meno di un milione di ettari; le importazioni e la dipendenza estera di proteine vegetali sono dunque aumentate nel tempo.
In Italia più della metà della superficie agricola nazionale destinata alle granelle secche si concentra in Toscana, Puglia, Sicilia e Marche. L’Italia, ogni anno, importa in media circa 90-100.000 tonnellate di leguminose da granella provenienti dai principali paesi produttori europei (Francia e Inghilterra) ed extra unione europea (Russia, Canada).
La Sicilia, secondo i dati dell’ultimo Censimento dell’Agricoltura (Istat 2010), rappresenta ben il 19% della superficie nazionale destinata alle colture proteiche (legumi secchi) ed il 12% delle aziende. In queste aziende le colture proteiche entrano in rotazione con i cereali.
Le leguminose da granella in Sicilia raccontano una storia molto antica fatta di uomini e di lavoro. Da sempre queste colture sono state impiegate nei modelli di rotazione adottati dagli agricoltori. Il tempo e la dedizione di questi uomini poi, hanno portato alla selezione di numerosi ecotipi locali, ispirando molte preparazioni culinarie divenute patrimonio tradizionale e culturale della Sicilia.
Grazie alla profonda radicazione di queste colture nella cultura contadina e alimentare siciliana e al rinnovato interesse dei consumatori/turisti per i prodotti tradizionali e per una dieta a minore apporto di proteine animali, sempre più vicina alla ormai nota dieta del mediterraneo, in tempi recenti nuove e interessanti opportunità si stanno profilando per i legumi di Sicilia, consentendone la loro collocazione su mercati altamente qualificati e abbastanza remunerativi e gettando le basi per una “fruizione” in chiave turistica dei luoghi in cui questi stessi semi “biodiversi” sono coltivati.
Sulle tracce dei legumi di Sicilia si percorre un itinerario che dalla provincia di Ragusa attraversa tutta l’Isola, raggiungendo i territori del trapanese e passando per Ustica: nelle campagne del ragusano, accanto alle colture più ricche, un gruppo di agricoltori sciclitani ha custodito un fagiolo che è diventato un Presidio Slow Food. Si tratta del cosaruciaru (“cosa dolce”) e si riconosce per via del suo colore bianco-panna con piccole screziature marroni intorno all’ilo. La fava cottoia di Modica, detta così perché cuoce prima rispetto ad una qualsiasi fava tradizionale, è un legume che risponde a quelle caratteristiche di bontà e di biodiversità che sono i presupposti fondamentali per fare parte del circuito di Slow Food. Questo prodotto da nicchia possiede un legame speciale con il territorio: il suo patrimonio nutrizionale, infatti, discende dai terreni di natura principalmente calcarea-silicea-argillosa e ricchi in sostanza organica che caratterizzano alcune contrade nel Modicano. Nel comune di Villalba e in parte dei territori dei comuni di Mussomeli e Marianopoli, dove da sempre l'economia locale è basata sull'agricoltura, la coltivazione della lenticchia e del pomodoro, in rotazione al grano duro, costituiscono il fulcro dell’economia locale. Oggi la lenticchia di Villalba è un Presidio Slow Food.
Nel territorio di Leonforte e nei comuni limitrofi di Assoro, Nissoria ed Enna, in tutti gli orti familiari, un ecotipo locale di fava, definita “larga” (presidio Slow food) proprio per le grandi dimensioni del seme che può raggiungere anche i tre grammi. Ad Ustica, piccola isola posta a Nord-Est della costa del territorio palermitano, si coltiva un ecotipo di lenticchia dal seme piccolissimo, che si è caratterizzato adattandosi alle peculiari condizioni dell’isola, anche grazie alla sapiente attività svolta dagli agricoltori di Ustica e all’istituzione del Presidio Slow food. Da due secoli negli orti familiari di Polizzi Generosa, tra i 700 e i 900 m s.l.m., all'interno del Parco delle Madonie, si coltiva un fagiolo bicolore di dimensioni medio-piccole e di forma tondeggiante, da qui il nome dialettale “badda”, cioè a palla. È un fagiolo screziato, con una suddivisione netta tra due colorazioni distinte che, di volta in volta, sono avorio con macchie rosate, aranciate, oppure viola scuro, quasi nere. Nel territorio di Trapani si coltivano leguminose “minori” come il cece Valle di Erice, la Cicerchia la lenticchia autoctona ed fagiolo rosso.
Il cece Valle di Erice, antico ecotipo locale di cece per il consumo umano, si caratterizza per un elevato contenuto in proteine. La cicerchia, coltivata soprattutto a Buseto Palizzolo, è un prodotto di nicchia, conosciuto ed apprezzato solo dagli intenditori. Nel Busetano e nel Pacecoto, si coltiva una vecchia varietà di lenticchia autoctona a seme piccolo di colore marrone scuro recuperata dagli agricoltori locali e il fagiolo rosso sia per il consumo fresco che per la raccolta della granella secca.