Lo hanno chiamato Wine Food Fest ma non è stato un festival dei McDonald’s come l’assonanza del suono potrebbe richiamare.
Anzi, ci siamo sentiti quasi ai poli opposti, velati di miti e di storia tra le quinte che contornavano Palazzolo Acreide. Siti di mondi lontani, nel tempo, nello stile di remote civiltà, alla ricerca e di un senso del gusto perduto e di quel “cibo contadino” che per secoli ha inondato quelle tavole.Due giorni a cavallo delle antichità. Che inabissa le sue radici nell’antica città greca di Akrai per poi riemergere e galleggiare nell’era Barocca. E lì si è stanziata. Per le sue bellezze l’Unesco ha deciso di annoverare quest’area iblea e Palazzolo Acreide tra il “Patrimonio dell’umanità”. E di questa ricchezza e di tutti questi soffi vitali gli organizzatori ne sembravano ammantati. Anzi gli esempi che ne hanno fornito rappresentavano proprio i punzoni dei tempi passati. Se un titolo più aderente a queste anime non l’hanno trovato, poco cambia e meno conta. E lo si capisce se lasciamo parlare la cronaca. L’onore di inaugurare la “due giorni” ,voluta da un piccolo gruppo di ristoratori che rappresentavano i venticinque esercizi di ristorazione (in un paese di diecimila abitanti) lo hanno riservato a Gaetano Quattropani chef del Ristorante Valentino. Lui si è scelto il tema e ne ha indicato in titolo “Gli antichi sapori perduti”. E poi ne ha curato lo svolgimento. Andando a reperire ricette antiche per farci riscoprire la civiltà rurale iblea, la ricchezza della semplicità, della bontà dei legumi, delle carni locali, delle erbe aromatiche.
Gaetano Quattropani “Maccarruna ca ugghia re furnu ca patata e u trufulu”
Ripescando sapori più sperdutiche perduti i come “A panza ri maiali cina co maccu ri favi cu l’ogghiu ri l’aguglia” o la zuppa antica dei “Crastuna ca jetta” per finire con dessert ancora più antico, da lui vestito di abiti moderni, quale “U gelato di sanceli duci ca crusta ri pani” “sanguinaccio con cioccolato in crosta di pane”. Per poi esprimere tutta la purezza del suo pensiero di cucina rurale nel “Pranzo del contadino” (foto sotto) apparecchiato su di un lungo tavolo all’ombra di un pergolato senza vite dell’antico mulino ad acqua “Santa Lucia”, situato nella suggestiva “Valle dei Mulini”.
Una delizia dei sensi tra il silenzio della campagna, rotto solo dal gorgoglio dell’acqua, aria frizzate e odori di arrosti, di maiale, coniglio, vitello, tovaglie punteggiate da coloratissime pietanze delle tradizione, i pipioli (piccoli peperoni) le impanate ripiene di broccoli pomodori secchi e salsicce in versione siracusana (quelle ragusane prevedono solo verdure e formaggio). E poi salsicce secche accompagnate da pani dalle farine particolari e olio extravergine di prima qualità. il tutto annaffiato da fiumi di Nero d’Avola dell’azienda Marabino.
Per chiudere in serata con altrettanta purezza di pensiero. Quello che stuzzica Ciccio Sultano quando è coinvolto in eventi del genere. Dove il territorio per lui rappresenta sia il cuore che lo scheletro del messaggio che intende lanciare. Ed è un suo frizzo ben lontano dai dogmi che predica al suo “ Duomo” di Iblea. Qui , in piazza, evangelizza il “Mangiare in dialetto” che poi è quello la cucina di strada le cui ispirazioni esempi li ha raccolti nella “pescheria” di Catania e nella “Vucciria” di Palermo. E poi tradotti in sapori e profumi con un menù che, se visto attraverso la lente del suo pensiero, lascia scorgere note di elevata cultura ed eccelsa raffinatezza. Pur parlando di “Purpu vugghiutu” di “Scacciuni ri Mente locale” e “Pasta con salsa moresca “taratatà” alle acciughe” (foto sotto).
Perché queste ricette «non sono altro che il frutto di una ricerca che ancor stiamo ampliando – precisa Ciccio Sultano – Ed è fatta di elementi poveri ma che vanno a concatenarsi con quelle cucine che partono da quelle baronali per approdare alle moderne. E parte di queste ricette sono state già da me rielaborate con i principi della gastronomia moderna e troveranno sempre più spazio dei menu del mio “Duomo”. Una ricerca molto più importante di quanto sembri. Infatti la stiamo già allargando .Non riusciamo a forzare quelle casseforti degli antichi Monasteri che conservano abbondanti tesori di ricette settecentesche».
Di “tesori” si è parlato anche al convegno “La terra migliore” che ha fatto il punto sulla tradizione alimentare degli Iblei, partendo dalle sue origini e analizzandone il contenuto naturalistico per finire col pregiato tartufo di Palazzolo. Che qua e là ha fatto timide apparizioni anche nelle più umili ricette della tradizione. Ma questa è un’altra storia, anzi, non ha storia e spesso, nonostante il valore della sua forza aromatica, è apparso come un intruso moderno tra autentiche sensazioni antiche.
Stefano Gurrera