Angelo Gaja è sembrato il più giovane di tutti, il più energico, a dispetto dei suoi 73 anni; Oscar Farinetti quello che sembrava la sapesse più lunga; un po' di passi indietro rispetto ai primi due Matteo Renzi e Flavio Tosi, un tantino più scontati con un carico di buoni propositi.
È in sintesi, in estrema sintesi, il succo del dibattito, forse il più atteso, che si è svolto al Vinitaly. Tutti e quattro a parlare di eccellenze italiane e della loro possibilità di conquistare il mondo. Due ore di dibattito centrato sulle risposte che si possono dare alle imprese italiane e, in particolare, al comparto agroalimentare. Che di risposte chiare e urgenti ne ha bisogno dato che rimane uno dei pochissimi elementi che trainano l'economia nazionale. Hanno cercato di formularle Matteo Renzi e Flavio Tosi, sindaco di Verona dando al dibattito tinte da comizio elettorale.
Renzi prova a mettere subito sul piatto una soluzione, che non è il mettere al governo un bravo ministro dell'Agricoltura ma realizzare un progetto paese, coerente. “I leader del paese – ha detto- devono aver chiaro che in questa storia della nostra terra c'è un pezzo del futuro dell'Italia, il vino – per lui la forza trainante, emblema di un modello vincente – Non è un caso che il primo miracolo compiuto da Gesù Cristo sia la moltiplicazione del vino. – e a tal proposito scherza- Non so se oggi gli sarebbe riuscito date le tantissime restrizioni dei disciplinari”. Renzi ribadisce alla platea che L'Italia non è un paese finito. “Ha la possibilità di credere in un domani. Non essendo andati bene adesso abbiamo qualche chance in più. Sogno un ministro del governo, un presidente del consiglio, che dia un obiettivo chiaro agli imprenditori”. Per il politico toscano c'è un primo passo da fare, per uscire da questo stato di stallo. “Abbiamo bisogno di contare su una storia credibile, un progetto nel quale potersi riconoscere, c'è bisogno di in Paese più semplice, se non usciamo nel mondi raccontando questa storia non avremo possibilità di recuperare la grand fame che c'è del nostro Paese”. È conclude: “Non dobbiamo vivere di rimpianti sembrare amarezze certo le imprese invece di essere aiutate sono messe in difficoltà. Guardiamo alla Cina. Li quelle nate molto dopo le nostre sono più forti. L'imprenditoria non è un settore di serie B – e riferendosi all'agroalimentare – Solo quando 'vai a zappare' non sarà più un insulto, quando riusciremo a governare la terra, quando questa diventerà parte cultuale del nostro Paese la politica avrà allora fatto qualcosa”.
Per Tosi il problema che affligge le imprese è lo Stato stesso che le schiaccia. Ed elenca i problemi che arrestano lo sviluppo: burocrazia, dazi, chiusura del sistema bancario, incapacità di giocare un ruolo in Europa. “Ha delle carenze al punto di vista dei rapporti con Europa, l'Italia ha sempre cercato di tamponare quello che arrivava da Bruxelles. Le Normative europee da un certo punto di vista possono avere effetti che sono preoccupanti, perché fatte su misura per altri paesi fatte sul sistema agricolo diverso. Non siamo riusciti a difenderci”. Sul problema che affligge molti imprenditori e artigiani la burocrazia commenta: “Ogni volta che entra di normare qualcosa invece di dare garanzie poi si arriva a incasinare le imprese, a gravare di ulteriori carichi i cittadini. Le norme hanno anche penalizzato il sistema bancario”. Come ripartire per la crescita? “Si deve risolvere quella proporzione che vede il costo costo del sistema pubblico essere più pesante rispetto a quello dell'economia. Lo dobbiamo fare con scelte coraggiose, il fatto è che anche se si fanno le manovre si rimane sempre indietro, dobbiamo chiederci se siamo in tempo per stare dietro alle esigenze che l'Italia ha nel mercato globale”.
Gaja ha invece suggerito le soluzioni, dandole come dosi di una ricetta, attraverso un'analisi lucida e appassionata e soprattutto concreta. Ed è partito dall'immagine dell'inferno.
“Il vino italiano – ha detto – si accinge alle porte del paradiso, e per giungervi ha attraversato l'inferno. Gli anni 50,60, 70 che hanno poi portato a quello che è successo nel 1986. Al nord si cominciarono a fare grandi masse. C'era il problema che si doveva correggere il vino. Si è legittimata il taglio e si è scelto questo come schema politico. Con il risultato che abbiamo avuto vini che portavano il nome del nord ma che avevano una quantità importante di vini di altri territori. Scelta più infelice non poteva esserci. Poi nell'82 si inizia ad esportare milioni ettolitri di vino, sembrava un successo straordinario, si voleva il vino cheap&cheerful, poi si capisce che si doveva cambiare marcia e tutti lo hanno fatto in modo egregio”. Gaja cita a questo punto i protagonisti di questo cambiamento, non solo produttori, chiamandoli “i padri”. “Il senatore Desana, che ha difeso a spada tratta le Doc, ha osteggiato duramente per introdurre regole e controlli e allora c'era un atteggiamento contrario anche da parte dei produttori. Veronelli, che ha chiesto l' abbassamento delle rese per ottenere vini migliori, che ha lottato per diffondere il concetto di vini di vigneto. Renato Ratti produttore piemontese, che ha messo a punto il contratto di negoziazione delle uve. Edoardo Valentini che ha realizzato un sogno, fare un grande vino con il Trebbiano. Maurizio Monti politico trentino che ha fondato le regole per la cooperazione”.
Per Gaja è il valore umano, e quello espresso dai giovani, il futuro del Paese. Ed esorta all'autostima. “Se per Made in Italy, intendiamo prodotto solo fatto in Italia e con materia prima italiana, il vino è il numero uno. Dobbiamo darci autostima per quello che il mondo del vino ha saputo fare. – Il comparto è per il 50 per cento controllato dalle cantine sociali, il 27 dalle aziende industriali che comprano uva e vino e il 20 dagli artigiani che svolgono un funzione preziosa. Piccoli e utili, perché hanno avuto una funzione importante per il turismo”. E conclude: “C'è stato un profondo cambiamento culturale in questi 25 anni, abbiamo atto un miracolo, la competizione cresce dobbiamo confrontarci sempre ed essere preparati , dobbiamo credere nei giovani, sono la nostra forza, e loro possono preservare la passione. Ma devono smettere di sentirsi italiani, imparando a sentirsi europei, devono fare propria la cultura europea. I nostri competitori sono i vini del nuovo mondo, la cultura europea è fondamentale per affrontare i mercati”.
Farinetti, con la schiettezza del suo linguaggio condivide con il pubblico invece l'immagine di un'Italia paradossale, ferma. “L'Italia non ha al momento altre alternative se non puntare sulle proprie vocazioni: natura, arte, agroalimentare, moda. Abbiamo il più bel Paese del mondo che però riesce ad attrarre la metà dei turisti che attira invece la Francia. Ma se a Pompei non hanno nemmeno il pos dove dobbiamo andare?”.