Da sinistra Alfredo Coelho, Etienne Montaigne, Fabio Mazzola, Sebastiano Torcivia
Un vaso di Pandora.
Cosi è stata dipinta la questione della liberalizzazione dei diritti d’impianto, o meglio, ciò che ne conseguirebbe dall’abolizione come stabilito dalla Commissione Europea. Questa immagine non preannuncia nulla di chiaro sulle conseguenze della decisione che sta tenendo acceso il dibattito da mesi tra piccoli produttori, associazioni di categoria, lobby del vino e istituzioni e che vede in Europa 9 Stati membro mantenere posizione decisamente contraria, tranne la Polonia. Un No corale alla disposizione del Regolamento europeo del 29 aprile 2008 la cui attuazione è prevista per il 2016, anche se potrebbe entrerare in vigore, con proroga, nel 2018.
All’immagine mitologica è ricorso Etienne Montaigne, direttore dell’Unità di Ricerca Moisa, centro internazionale degli studi superiori in scienze agronomiche e docente di Agricoltura ed economia dell’industria agroalimentare alla facoltà di Ingegneria di Montpellier, ospitato a Palermo per illustrare lo studio condotto sul tema ad un seminario tenutosi alla facoltà di Economia e organizzato dal docente Sebastiano Torcivia. Ha utilizzato questa espressione per dare l’idea di quanto ancora non siano definiti o definibili, nemmeno per la Commissione europea a pochissimi anni dalla liberalizzazione, gli effetti e le ripercussioni sul sistema vino e sull’economia delle regioni del vino europee. “Si può correre il rischio di modificare un sistema senza sapere cosa ne viene in termini di ritorno. Si rischia di aprire un vaso di Pandora”. Parole ad effetto che lasciano presagire quanto il tema continuerà ad essere al centro delle polemiche mosse dalla maggior parte dei protagonisti del comparto del vino che, con non poca preoccupazione, temono una possibile crisi in aggiunta a quella attuale, che potrebbe derivare dalla sovrapproduzione incontrollata, il maggiore arricchimento dei grandi produttori di vino a scapito dei vigneron, e poi ancora la svalutazione della produzione con conseguente impoverimento di tutto l’indotto.
Montaigne, insieme ad Alfredo Coelho, ricercatore associato all’Umr Moisa, ha illustrato una mappa dei diversi scenari nel mondo partendo da quelli dove il mercato vitivinicolo non è segnato dal sistema di compre/vendita dei diritti di impianto. Si tratta dei risultati dello studio indipendente commissionato dall’Assemblea delle Regioni Europee Viticole (Arev) che ne riunisce 75 di regioni, per rispondere scientificamente, con dati alla mano, alle argomentazioni sostenute dalla riforma, e che sarà presentato ad un tavolo tecnico a Bruxelles il prossimo settembre.
Dal verdetto delle analisi è emerso un quadro estremamente variegato, che vede svilupparsi politiche di mercato e di sostegno con dinamiche diversissime e peculiari alla realtà di ogni singolo Paese o addirittura a ciascuna regione all’interno di esso. Se l’intento a monte della ricerca era quello di individuare delle risposte di portata globale, l’esito ha fornito risposte frammentarie.
Australia, Argentina, Portogallo, Spagna e Francia i case studies sui quali si è concentrata l’analisi comparata dell’equipe guidata da Montaigne. “Non possiamo dire se la liberalizzazione dei diritti sia cosa giusta o sbagliata. Perché non è un fattore a sé stante, la sua influenza sul sistema vitivinicolo è legato ad altre, tantissime, variabili, ad un insieme di meccanismi che giocano sullo sviluppo e sul potenziale di produzione. Non abbiamo una risposta univoca e unitaria. Abbiamo visto come ogni Paese ha fatto le proprie scelte, se liberalizzare, se usare con il contagocce il diritto, come è avvenuto in Spagna, se estirpare o bloccare il reimpianto come nel caso della Rioja. Per esempio abbiamo visto come l’assenza di diritti di impianto non ha determinato la crescita delle dimensioni delle aziende vinicole e che altri fattori, altri meccanismi di compensazione sono entrati in gioco”. Il sistema dei diritti non eviterebbe insomma la sovrapproduzione o la riduzione del rendimento, tra le conseguenze più temute. Oppure nemmeno i benefici probabili, e auspicati dalla Commissione relativamente alle economie di scala, che si avrebbero con l’abolizione dei diritti sulla competitività a livello internazionale e sulla produttività del lavoro.
L’esposizione dello studio è partito dall’Australia. In assenza di politiche di controllo del mondo vitivinicolo, il Paese liberale per eccellenza rappresenta il caso in cui a regolare l’andamento e la qualità della produzione è il mercato e il contratto tra cantine, viticoltori e investitori. In Argentina invece, altro Paese privo dell’istituzione del diritto di impianto, la produzione sarebbe regolata dalla commercializzazione e dall’ export dei mosti e mosti concentrati, che fino ad ora avrebbe consentito la remunerazione del viticoltore e il mantenimento del livello dei prezzi. Per quanto riguarda il Portogallo è stato presentato il caso dell’Alentejo, nella fascia meridione, o meglio considerato il Nuovo Mondo del Paese. Qui il libero scambio dei diritti, fino al ’98 gestiti con asta pubblica e con gare d’appalto, avrebbe fatto crescere la regione con uno spostamento di vigneti da zone difficili, meno produttive del Portogallo a quelle più vocate. Oggi detiene il 45% della quota di mercato dell’intera produzione di tutta l’area meridionale portoghese. Ma insieme al libero scambio altre misure avrebbero agevolato l'incremento della produzione. Come gli incentivi di riconversione e di ristrutturazione promossi dal programma Vitis, con un fondo di 150 milioni di euro. In Spagna, dove c’è una riserva nazionale e regionale dei diritti di piantagione, viene controllata la fluidità del trasferimento interregionale dei diritti tra le regioni per evitare squilibri nell’intero sistema. Cosa che non ha impedito lo sviluppo di aree come la Rioja e l'affacciarsi sul mercato di giovani viticoltori. Anche in Francia c’è una riserva nazionale ma i diritti sono suddivisi tramite l’istituzione di una quota individuale annuale molto bassa e legati ad un’autorizzazione di piantagione, con prezzi indipendenti dalle regioni da cui provengono, e che hanno impedito grandi operazioni di impianto. Con questo sistema la Champagne ha sviluppato il proprio vigneto di 2 360 ha in 10 anni, l’Alsazia di 786 ha, ossia il 5,1 %.
Alla luce dei dati raccolti, la questione è tutt'altro che chiusa. Inoltre si attende il confronto tra la Commissione Europea e il Parlamento che sul tema assumerebbe posizioni più conservatrici. Intanto a luglio è previsto un incontro a Bruxelles che coinvolgeràassociazioni di categoria, esponenti dei ministeri, per dibattere sugli effetti causati dalla liberalizzazione dei diritti di impianto, tra cui anche le ripercussioni sulla standardizzazione industriale del vino e sulla reputazione del vino e della sua qualità, o l'impatto sullo sviluppo rurale.
C.d.G.