“Si fa molta comunicazione ma sono davvero pochissimi i territori del vino vulcanici che investono, dal punto visita della ricerca, nella presa di coscienza del fenomeno causale che lega l’ambiente vulcanico al vino”.
E’ quanto sostiene Attilio Scienza (nella foto), ordinario di Viticoltura alla Facoltà di Agraria dell’Università di Milano. Lo dice a poche ore dall’apertura della quarta edizione di Vulcania, la due giorni di convegno, in programma oggi e domani a Napoli, che come tema quest’anno ha lo studio dei territori vulcanici dal punto di vista climatico e che richiama produttori, ricercatori, studiosi e giornalisti da tutta Italia (leggi articolo). Secondo il professore “il territorio di Soave è l’unico, ad oggi, che sta mandando avanti in modo sistematico e serio progetti di studio per approfondire la conoscenza dell’ambiente vulcanico”. Scendendo verso l’estremo sud, sull’Etna, dove proprio Scienza con un’equipe di ricercatori dell’Università di Milano ha condotto un progetto di zonazione, passando ai raggi x i versanti del vulcano, “tutto sembrerebbe fermo” come sostiene il professore. “Sull’Etna si sta facendo un grande lavoro di comunicazione – ha detto – non si è andati però avanti dal punto di vista della ricerca dopo le basi gettate dallo studio di zonazione”.
Veduta di un vigneto sull'Etna
Dei territori vulcanici ancora c’è tanto da scoprire e sarebbe anche sbagliato, per Scienza, caratterizzarli sotto la stessa categoria di “vulcano”. “Il termine vulcanico è generico. Abbiamo una quantità enorme di tipologie, non c’è nessun tipo di suolo che ha questa variabilità e anche da poco tempo si sta affrontando il tema del suolo vulcanico. Per non cadere nel generalismo, siamo soliti legare il prodotto al fenomeno, invece bisogna trascendere la fenomenologia del pensiero. Ogni territorio è diverso dall’altro. Racconta ciascuno la sua storia, la sua stessa origine è legabile ad un mito, ad un archetipo”. E infatti, il professore Scienza a Vulcania porta una chiave insolita di interpretazione del territorio vulcanico: quella degli archetipi Junghiani. Ha scelto di indagarlo secondo quattro “idee innate” teorizzate e applicate dal padre della Psicologia analitica. Il professore ci spiega il perché di questo diverso punto di vista, che lui stesso definisce “una ipotesi sinestesica”: “Ho cecato di riassumere i miti fondativi di un territorio, acqua, luce, terra e fuoco attraverso l’approccio junghiano perché propone chiavi interpretative del comportamento umano odierno attraverso archetipi del passato, archetipi significativi per capire il rapporto tra il luogo e l’uomo mediato dal mito. Così l’archetipo dell’acqua è il fluire della lava. Quello della gran madre si lega al significato della rigeneraizone, e rimanda al valore del significato del vulcano stesso che rimescola gli strati della terra. Il grande aratro del mondo. Poi c’è il sé. Se ripensiamo all’esperienza del viaggio di Ulisse, nella parte italiana l’eroe frequenta luoghi dove sono presenti fenomeni di vulcanismo, dove il valore del vulcano assume un valore simbolico nella ricerca di se stessi. L’ultimo archetipo a cui mi sono ispirato è quello della caverna. Le vie cave erano quelle percorse per portare i corpi nella necropoli, rappresentano un ritorno alla terra. Scavare una strada nel territorio vulcanico ricollega ad un sentimento della purificazione”.
I territori vulcanici per il professore sono quindi luoghi dove si attiva la rigenerazione attraverso le tracce che riportano al passato. Ma li definisce anche luoghi di persistenza e di resistenza. “La vite è legata alla persistenza del mito. I territori vulcanici solo luoghi eletti di persistenza. E’ lì che sopravvivono vecchie forme di allevamento, vecchie varietà autoctone, vecchi metodi di vinificazione. Lì le viti hanno radici profonde, sono difficili da scalzare, hanno un profondo rapporto con la storia. I territori vulcanici sono i gli ultimi luoghi rimasti che resistono alla globalizzazione”.
C.d.G.