di Simone Cantoni
Una di quelle tipicità alimentari che, solo a pronunciarne il nome, fanno scattare nella mente l’associazione con le sue terre di nascita e d’appartenenza.
Il ciauscolo: un salume (per l’esattezza un insaccato) ben noto nel mondo per la sua golosità; e la sua culla: quel quadrante dell’Italia centrale che abbraccia le regioni dell’Umbria e delle Marche. In particolare la seconda, identificata come più antica area di nascita o quantomeno di attestazione documentale: la citazione scritta risalente più addietro nel tempo (tra quelle attualmente conosciute) è un listino prezzi datato 1696 e conservato nell’archivio di Macerata. Ma le origini di questa specialità – il cui etimo sembra coincidere con il latino “cibusculum”, ovvero “piccolo cibo”, cioè “spuntino” – sono sicuramente precedenti. Con ogni probabilità rimandano già all’epoca del dominio longobardo in queste zone; e alla successiva “epopea” della signoria (poi ducato) di Spoleto e Camerino: tra l’altro, proprio nel comprensorio camerte (appunto in provincia di Macerata), il comune di Visso vanta col ciauscolo una relazione storica speciale.
IL CIAUSCOLO OGGI
Tutelato con la sigla di Indicazione Geografica Protetta dal 2006 a livello nazionale e dal 2009 a livello europeo, il ciauscolo a marchio Igp è esclusivamente quello prodotto nelle provincie marchigiane di Ancona, Macerata, Fermo e Ascoli. Il suo disciplinare prevede una scelta, come materia prima, di diversi tagli suini (spalla, pancetta, prosciutto, lombo, lardo e altri), le cui carni vengono refrigerate e frollate per due giorni; a seguire, la loro macinatura in più riprese (di solito due) e la loro aromatizzazione con ingredienti quali vino bianco, aglio e pepe; quindi abbiamo il confezionamento dell’impasto così ottenuto in un budello naturale; infine la sua asciugatura (con facoltativa affumicatura) e la sua stagionatura per almeno due settimane. Il risultato? Una consistenza assai morbida e plastica a sufficienza per essere spalmabile; un profumo speziato, agliaceo e vivamente carneo, comunque determinato dai trattamenti specificamente operati; una massa grassa decisamente considerevole; un gusto incisivamente sapido e talvolta appena piccante. Una leccornia vera, date ascolto: che abbiamo provato in abbinamento con tre birre di altrettante diverse tipologie.
CON LA MÄRZEN
Il primo approccio è tutt’altro che audace; per l’incontro in tavola abbiamo pensato a una Märzen: la “Festbier”, referenza stagionale firmata, a Rimini, dalla “Beha Brewing”, e ispirata alle Oktobestfestbier. Di colore ambrato pieno, i suoi profumi (di filoncino ben tostato) evocano l’idea di un bel panino con in mezzo dell’affettato: una combinazione mentale di grande effetto, grazie alla forte familiarità che lega il consumatore italiano con quel tipo di “merenda”. Ma ovviamente c’è dell’altro: la sorsata (pur senza spiccare per acidità) fa valere la somma della propria gradazione (5.8%) e della propria effervescenza nel mettere in campo funzioni di gestione lipidica senz’altro all’altezza della massa grassa del boccone. Mentre la sostanziale morbidezza della bevuta (marginale la sua vena d’amaro) non va in urto con la cuspide sapido-piccante del salume.
CON LA AMERICAN AMBER
Più originale e, relativamente, azzardato il secondo abbinamento. Sulla carta, almeno: ché nella realtà, invece, la “Quarantine” – American Amber Ale dalle tinte ramate appartenente alla scuderia “The Lure” (Gorizia) – presenta un profilo “a stelle e strisce” nel quale la vena amaricante risulta decisamente limata, quindi tale da non generare dissonanze con la spinta sapida e piccante dell’insaccato. Anzi, le morbidezze maltate della bevuta emergono quasi quasi con ancora maggiore rotondità, rispetto a quanto rilevato assaggiando la “Festbier”: dunque, al palato, abbiamo un livello di compatibilità sorso-boccone pienamente garantito. Per il resto, la combinazione tra birra e salume ha un esito simile al precedente, in ordine tanto agli allineamenti aromatici, quanto alla capacità del bicchiere di fluidificare la materia lipidica del ciauscolo, facilitandone l’assimilazione.
CON LA SAISON
È ora di cambiare registro. Dopo due ambrate, una chiara; e dopo due profili fermentativi neutri, le vigorie aromatiche di lievito da Saison. Quale Saison? La “Ocra” targata “Diciottozerouno” (Oleggio Castello, Novara): un calice color paglierino velato, da 6 gradi alcolici. I suoi tratti panificati, benché a cottura più breve rispetto a quelli delle due birre precedenti (emergono note di crosta chiara), tornano a creare quelle impressioni “da sandwich” già positivamente visti in azione con la “Festbier” e la “Quarantine”. Le capacità di gestione lipidica espresse dal bicchiere, incrementate dalla sua aitante bollicina, migliorano il lavoro di scioglimento della materia grassa in dotazione al salume. La dorsale acidula della bevuta facilita parecchio nel contenere le potenziali insistenze agliacee e carnee dell’insaccato. Mentre la chiusura leggermente amara della sorsata, sebbene, nel corpo a corpo iniziale, faccia avvertire qualche frizione contro la lama sapido-piccante del boccone, tutto sommato non produce stridori veri e propri, offrendo un abbinamento nell’insieme piacevole…
BIRRIFICIO DICIOTTOZEROUNO
Via Stefano Niccolini, 7/A – Oleggio Castello (Novara)
T. 339 2399244
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