di Simone Cantoni
“Quinto quarto”: ovvero “la rivincita dei derelitti”.
O, ancora, uno dei tanti capitoli di quella saga gastronomica che potremmo intitolare “la cucina povera al potere”; e però, in questa epopea, un capitolo davvero speciale: giacché la “riscossa” in questione riguarda un ampio gruppo di carni storicamente considerate non diremo “di scarto”, ma sicuramente di scarso pregio.
L’ORIGINE DEL NOME
Con “quinto quarto” s’intendeva infatti, entro il contesto socioculturale in cui è maturato questo battesimo, di tutto ciò che fosse rimasto di un animale macellato (ovino o vaccino che fosse), una volta vendute ai consumatori benestanti le parti pregiate: i due quarti anteriori e i due quarti posteriori. In pratica, le “frattaglie”. Ma mentre tale definizione, applicata per prassi anche alle carni suine (escludendo invece pollame e volatili, per i quali si usa il termine “rigaglie”) è abbastanza facilmente intuibile nella propria etimologia (si tratta di una voce derivante dal latino “fractus”, il participio passato di “frangĕre”, cioè “spezzare”), quella dell’espressione “quinto quarto” risulta invece una decodifica decisamente meno immediata. La sua ragion d’essere trae spunto dalla pratica di trattamento della bestia macellata: la cui mole viene divisa inizialmente in senso longitudinale (eseguendo una sezione lungo la colonna vertebrale), dando luogo a due parti designate come mezzene (una destra e una sinistra); quindi, in un secondo momento, subisce una separazione anche in senso trasversale, che interessa (logicamente) entrambe le mezzene e che dà origine (appunto) a quattro “quarti”, due anteriori e due posteriori. Ecco, da essi si ricavano i tagli di carne cosiddetti “nobili” (i vari controfiletto, filetto, scannello, scamone, girello, lombata… La letteratura di genere non è affatto omogenea rispetto all’argomento); ma il giacimento di organi commestibili è ancora assai ampio: un vero e proprio tesoretto, al quale attingere per procurarsi e poi cucinare tante altre squisitezze; quelle riunite appunto sotto la definizione di quinto quarto.
IL QUINTO QUARTO OGGI
Tenuto a lungo in scarsa considerazione, questo numeroso catalogo di carni è oggi al contrario oggetto di una meritata rivalutazione. Favorita, occorre dirlo, da un atteggiamento da parte del consumatore – quello della “ricerca spasmodica del nuovo” (nel senso sia del propriamente inedito sia della riscoperta dell’antico e dimenticato) – il quale, in linea di principio, possiamo considerare certamente deteriore e talvolta spinge (a nostro avviso) a forme di cerebralità culinaria; ma che, d’altra parte, induce a interessanti operazioni di recupero e valorizzazione riguardanti contenuti gastronomici – materiali (ovvero ingredienti) e immateriali (ricette, trattamenti) – di oggettivo ed estremo interesse.
FACCIAMO L’APPELLO
Vediamo ora più da vicino quali tagli rientrano entro il perimetro della più o meno assodata classificazione di quinto quarto. Regolando la lente d’ingrandimento della nostra attenzione specificamente verso l’ambito della macellazione relativo ai bovini adulti, possiamo stilare un elenco di questo genere: trippa (il rumine dell’animale) e gli altri tre stomaci (omaso, abomaso, reticolo), rognoni (reni), cuore, polmoni, fegato, milza, animelle (ghiandole collocate nel collo degli esemplari non ancora giunti a maturità), intestino tenue, testicoli, mammelle, cervello, lingua, zampa, coda, guance. A questa lista, parlando del maiale e del vitello, vanno aggiunti gli zampetti; inoltre le animelle interessano anche il collo degli agnelli; infine, al quinto quarto afferiscono anche le parti umili di ovini e suini, nonché dei volatili sia selvatici (piccione, ad esempio) sia da cortile (come la gallina).
IL QUINTO QUARTO IN ABBINAMENTO
Anzitutto, una premessa di carattere concettuale (e metodologico). Ha senso parlare di tecniche d’abbinamento specifiche da applicare a una particolare categoria di alimenti o di ricette ruotanti attorno a quegli alimenti (per capirci: pesce, carne, formaggi, salumi, uova e così via?). Ebbene, a nostro avviso la risposta più onesta è no: quantomeno non troppo. Perché, a veder bene, lo schema generale della teoria e della pratica degli abbinamenti prende in considerazione tutti i parametri sensoriali riscontrabili in tutti i diversi ambiti gastronomici; e mette a disposizione gli strumenti occorrenti a regolarsi a fronte di ciascuno di quei parametri. Per farla breve, poco importa se ci si trovi ad “affrontare” un insaccato o un mollusco: lo schema generale riguardante le coppie di caratteri sensoriali tra loro complementari armonici (con tutte le integrazioni, le eccezioni e, quindi, le indicazioni d’uso supplementari che quello schema implica), contiene in sé tutto ciò che serve per avvicinarsi con cognizione di causa a qualsiasi tematica d’abbinamento specifica.
Tuttavia è vero è che, nella divulgazione, occorre anche accogliere comprensibili istanze di semplificazione (rispetto al funzionamento di uno schema, quello generale, alquanto complesso e non immediato da metabolizzare, quindi da padroneggiare). In altre parole, è lecito porre, e ricevere, richieste d’individuazione su quali siano gli aspetti fondamentali su cui concentrarsi, nella pratica dell’accompagnamento in tavola, dovendo cimentarsi, di volta in volta con materie organolettiche assai diverse tra loro: cioccolato, ortaggi, spezie, frutta, legumi e via enumerando.
Ecco, in tal senso, rispetto al rigore circa il ricorso, sempre e comunque, allo schema generale degli abbinamenti, è sensato accettare di compiere un compromesso. Quale? Ecco qua: inquadrare, per ciascuno di quegli ambiti gastronomici specifici di cui si è detto, alcuni connotati sensoriali (o gruppi di connotati sensoriali) “salienti” – ovvero più frequentemente ricorrenti – sui quali puntare l’attenzione; e definire – sulla scorta di tale approccio preliminare – le conseguenti tecniche di avvicinamento a quegli stessi connotati sensoriali: tecniche tese a individuare le caratteristiche organolettiche che possano essere espresse dal bicchiere candidato al sodalizio in tavola ((vino o birra non cambia), al fine di portare al palato equilibrio e piacevolezza.
Ciò detto, procediamo in coerenza; vediamo, come punto di partenza, quali possano essere i connotati organolettici (o i gruppi di connotati organolettici) da considerare come salienti parlando di quinto quarto; e successivamente orientiamo il tiro della nostra attenzione verso le prerogative sensoriali (di una birra, nel nostro caso) che meglio si adattano ad armonizzarsi con ciascuno di qui connotati (o gruppi di connotati) organolettici.
COMPONENTI GRASSE
I tagli del quinto quarto presentano con una certa frequenza frazioni grasse (si pensi al cervello o alla mammella) in abbondanza e magari in grande abbondanza. Ecco, alla birra si richiede allora capacità di esprimere, in proporzione, quelle caratteristiche che vengono definite “funzioni di gestione della materia lipidica”: ovvero effervescenza, acidità, alcolicità, eventuale tannicità. Si tratta di requisiti che (agendo singolarmente o, meglio ancora, in combinazione) si rivelano in grado di alleggerire il cavo orale dai depositi oleoso-untuosi che la sostanza grassa fisiologicamente distende sulla lingua e sulle pareti molli del palato; e che attenuano sensibilmente l’efficacia dei recettori sensoriali.
COLLAGENE
I tagli del quinto quarto presentano talvolta porzioni di tessuto connettivo (si pensi ai nervetti) che, in cottura, sono destinate a rilasciare collagene. In quel caso alla birra si richiede capacità di esprimere, in proporzione, funzioni sensoriali efficaci nel gestire tale materia proteica: di uovo effervescenza, acidità, alcolicità si rivelano atte ad alleggerire il cavo orale dalle posature viscose depositate dal collagere, che tendono a manifestare un comportamento simile a quello dei residui grassi.
ODOROSITÀ ACUTE
I tagli del quinto quarto presentano talvolta caratterizzazioni olfattive (quindi gustolfattive) assai marcate e non sempre percepite come gradevoli: si pensi alla nota ematica del fegato o della milza. A fronte di tale evenienza, In questo caso, alla birra si chiede di gestire le direzioni odorose del piatto: di smorzarne la potenziale insistenza al palato, esercitando nei confronti di quest’ultimo un’adeguata sollecitazione acida, atta a stimolare la produzione salivale e la conseguente irrorazione enzimatica della cavità orale, con cui provvedere a ripristinarne freschezza e pulizia dopo la masticazione.
TRE PROVE PRATICHE
Completiamo questa esplorazione lungo le latitudini del quinto quarto con tre esperimenti in tema d’abbinamento. Trippa fritta e Gose. Partiamo con un cartoccio di trippa fritta: servito insieme a un vasetto di salsa al pomodoro, pecorino e menta; e annaffiato con la “Che Belle Gose”, appunto una Gose, firmata, in Piemonte, da tre marchi – gli alessandrini “Civale” e “Montegioco”, più il novarese “Croce di Malto” – attraverso una ricetta che prevede l’impiego di Magnum e Tettnager in luppolatura, di frumento e avena in impasto, di coriandolo e sale (sia bianco sia rosa) a fine bollitura. Le sue capacità di gestione lipidica (bollicina e acidità, cui va a sostegno una gradazione pur bassa: siamo a 4.8) funzionano efficacemente sulla massa grassa non debordante del piatto; mentre la già citata acidità addomestica a dovere l’odorosità divisiva della trippa; e il coriandolo, con le sue balsamicità, richiama quelle (sebbene più intense) della menta.
Risotto ai fegatelli di maiale e Flemish Red Ale. Seconda “stazione”, un risotto ai fegatelli su fonduta di Gorgonzola accompagnato da cipolla bruciata, con riduzione di aceto balsamico. Sfida “ultrarischiosa” in abbinamento; si arruolano allora i pezzi d’artiglieria pesante: come la “Dolii Raptorbach”, meravigliosa Flemish Red Ale targata “Montegioco”, autore stavolta in solitaria. Le sue energie in fatto di acidità, bolla e alcol (8.5) stanano e sciolgono, del piatto, tanto la densità lipidica (in questo caso notevole), quanto la massa amidacea; la stessa acidità della bevuta ammansisce per benino l’olfattività ematica del fegato; le note da aceto balsamico tipiche della tipologia brassicola qui rappresentata s’intrecciano e fondono con quelle della riduzione utilizzata per l’elaborazione della pietanza; mentre la dolcezza di base della sorsata opera in bel contrasto armonico sulle sapidità del formaggio associato al risotto.
Coda alla vaccinara e Saison in barrique. Si chiude con un secondo piatto: coda alla vaccinara marinata e cotta in birra ambrata; in accostamento alla quale si convoca un’altra acida. È la “Hippie in the barrel” del “Piccolo Birrificio Clandestino” (Livorno): ovvero la versione evoluta in legno (con esiti acetificanti e Farmhouse) di una Sasion contenente fiori di erica, gelsomino, ibisco, rosa canina; e caratterizzata da una gradazione intermedia, tarata sul 6%. Un alcol bastante (in alleanza con bollicina e acidità) a gestire il combinato grasso-collagne della coda, come a smaltirne l’odorosità animale; mentre l’assenza di amaro della sorsata rispetta e non intralcia la notevole sapidità del boccone.
BIRRIFICIO CROCE DI MALTO
Corso Roma, 51/A – Trecate (Novara)
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www.crocedimalto.it
BIRRIFICIO MONTEGIOCO
Frazione Fabbrica, 30 – Montegioco (Alessandria)
T. 335 5748181; 334 8055379
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BIRRIFICIO CIVALE
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T. 0131 618250
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www@birrificiocivale.it
PICCOLO BIRRIFICIO CLANDESTINO
via Domenico Cimarosa, 37/39 – Livorno
T. 0586 854439
info@piccolobirrificioclandestino.it
www.piccolobirrificioclandestino.it