Vignaioli custodi del paesaggio rurale, dalle produzioni più autentiche e rappresentative dei territori, attenti alla sostenibilità e all’integrazione sociale ma bloccati da lacci e lacciuoli della burocrazia: così li ritrae il rapporto stilato da Nomisma per Fivi, Federazione italiana vignaioli indipendenti, ossia quei produttori che coltivano, vinificano, imbottigliano e vendono in proprio, facendo tutto da soli. Sono oltre 1.700 i vignaioli Fivi, circa 10 gli ettari di vigneto, 75 tonnellate di uva auto-prodotta per una produzione media di 38.500 bottiglie vendute ogni anno. Dalla survey Nomisma emerge però il contributo ad opera dei “piccoli” – il fatturato medio di queste aziende è 297mila euro, il 36% si muove tra 100mila e 200mila – di cui gode non solo la filiera ma anche il sistema Paese. Lo si capisce guardando al dato della localizzazione delle imprese: il 75% si trova in collina, il 6% in montagna, a fronte del 55% e 5% nazionale (a cui invece piace la viticoltura “comoda” in pianura: 40%), aree interne a rischio spopolamento che vengono invece curate, a beneficio di tutta la popolazione. Zone in cui la vite non è la coltura più diffusa (383 migliaia di ettari) ma è quella il cui valore è maggiore (5.500 ad ettaro nel 2022), considerando che va incontro a una trasformazione, non avendo di per sé capacità di sussistenza e mantenimento del territorio.
I vignaioli indipendenti dimostrano di credere in un modello sociale che vede rispetto all’agricoltura italiana un numero più alto di donne (33%, lavoratori a tempo indeterminato (30%), stranieri (28%) e under 30 (22%). Sostenibilità sociale e ambientale ricercata dall’86% delle aziende che attuano tra le azioni più comuni nel 2022-23, al di là della raccolta differenziata, un packaging sostenibile e il risparmio idrico. Attenzione dimostrata anche con le certificazioni acquisite, dal biologico (la metà è bio) al 37% che hanno quelle attestanti invece la sostenibilità. Un impegno che si traduce nel prezzo medio a bottiglia del vino venduto dai produttori Fivi, doppio rispetto alla media italiana (7,7 euro contro 3,6: quasi obbligato il prezzo più alto, considerate le difficoltà).
Le sfide? Le stesse di tanti piccoli produttori, con un appunto: va sottolineato, ancora una volta, che le zone non pianeggianti non consentono economie di scala e incidono sui costi. La sfida principale è quindi la sostenibilità economica e reddituale (45% lo dichiara), seguita dai vincoli normativi e l’accesso ai mercati, cosa che pesa al 20% dei vignaioli indipendenti. Per via di restrizioni e vincoli burocratici le piccole aziende infatti spesso non riescono a superare le barriere all’ingresso dei fondi Ocm e solo il 40% dei soci Fivi negli ultimi due anni ne ha potuto beneficiare. Il panorama è inoltre costellato di evoluzione dei consumi (si beve meno) e di congiuntura economica sfavorevole che disincentiva all’acquisto di vino di qualità.
“Dati preoccupanti impongono riflessioni – osserva il presidente Fivi Lorenzo Cesconi -. Per via della marginalità delle nostre aziende non possiamo più essere ammortizzatori rispetto al costo delle materie prime; al cambiamento climatico, specialmente quando perdiamo parte o tutta la produzione, e non si perde il valore dell’uva ma quello della bottiglia; ai pochi ausili forniti dalle assicurazioni. Infine, i costi: sopportiamo investimenti di gittata lunghissima, rientrarci dopo 20 anni sarebbe già qualcosa, ma 20 sono gli anni per una produzione di qualità”. E non finisce qui: “Le nostre aziende sono limitatamente strutturate, molte richieste hanno un’utilità relativa e per un’azienda verticale con uno schema produttivo semplice come le nostre tali richieste non sono più tollerabili. Chiediamo quindi semplificazioni”.
Aggiunge Matilde Poggi, presidente CEVI – Confederazione europea vignaioli indipendenti: “Molti esportano ma non vengono sostenuti, i monopoli scandinavi impongono certificazioni per le quali chiediamo semplificazione. Ecco perché i vignaioli investono nella vendita diretta”, inclusa ovviamente quella a privati tramite sportelli one spot shop, incassando quindi le accise del paese di destinazione. avversata ma in realtà “è un modo sicuro di incassare queste accise”. In generale, c’è fiducia verso il nuovo commissario Christophe Hansen: “Ho avuto sensazioni positive, ha dimostrato una certa attenzione ai temi delle piccole produzioni, l’importanza di sviluppare i contatti diretti, la disintermediazione. Le sfide sono tante, dal cambiamento climatico alla scadenza dell’autorizzazione all’uso del rame, unico al momento efficace”.