L’arrosto panato palermitano è l’antenato della cotoletta, parola di Luca Cesari. Lo storico della gastronomia, autore di Storia della pasta in 10 piatti, best seller tradotto in otto Paesi, vincitore del Premio Bancarella della cucina 2021 e del Prix de la littérature gastronomique nel 2022, a Palermo per una quattro giorni dedicata a cultura e comunicazione del cibo organizzata dal corso di laurea magistrale in Comunicazione per l’enogastronomia dell’Università cittadina, ci svela in anteprima alcuni passaggi del suo nuovo libro in uscita a primavera 2025 per Il Saggiatore e dedicato alla cotoletta.
Cesari spiega come “a partire dal Medioevo ci sia l’uso di mettere del pangrattato sopra gli arrosti prima di servirli in tavola, facendo fare un’ultima rosolatura sullo spiedo, in modo che la carne diventi croccante e colorata. Questa cosa è stata fatta per secoli. Ad un certo punto, però, si è iniziato a cuocere le fette di carne singolarmente, dopo averle cosparse di un grasso – olio o strutto – e ricoperte col pangrattato per poi grigliarle. In molte zone d’Italia – racconta -, la pratica di immergere la carne nell’uovo è nata più tardi, tra fine 700 ed inizio 800. Ma alcuni territori, tra cui Palermo, hanno continuato a fare la vecchia carne panata con la crosticina croccante che trattiene tutti i sughi interni, non uniformandosi alla panatura con uovo e frittura del resto d’Italia. In sintesi – dice lo storico della gastronomia – qui si è conservata una tipologia di cottura delle carne panata che è molto più antica della cotoletta. È un piatto identitario di cui forse i palermitani non sono consapevoli, una sorta di fossile gastronomico – continua Cesari -. È come se a Palermo si fosse preservato un mammut senza ulteriori evoluzioni, cosa molto interessante nella storia della gastronomia perché non si trova da nessuna altra parte”.
Nel corso degli incontri con gli studenti del capoluogo, Cesari ha parlato di cultura e comunicazione del cibo sottolineando che “mai come oggi c’è stata tanta attenzione nei confronti di ciò che mangiamo. Cuciniamo molto poco, non dominiamo la materia prima e il punto di preparazione di ciò che mangiamo è sempre più lontano dalla nostra tavola, per questo ci serve tanto che ce ne venga fatto un racconto. Quando scegliamo un cibo, ci sono tante cose che vengono prese in considerazione: l’aspetto del gusto, quello della tradizione, quello salutistico o etico e morale, ad esempio. Tutti valori aggiunti che arrivano solo attraverso la comunicazione, che riesce a dare, diciamo così, un sapore in più a quello che stiamo mangiando”.
Si crea però una sorta di cortocircuito perché “molte persone che parlano di cibo non hanno le giuste competenze o la formazione specifica – aggiunge Cesari -. È un mondo denso di informazioni ma non sappiamo da chi vengono veicolate e questo vale per la dietetica come per la nutrizione, per l’agricoltura, per le specialità tradizionali e così via. Le persone competenti fanno fatica ad emergere perché c’è troppo brusio di fondo, i canali di informazione si sono moltiplicati, l’interesse è aumentato ma si fatica a distinguere le competenze. Ecco perché un corso di studi come quello dell’Università di Palermo in Comunicazione per l’enogastronomia è fondamentale per qualificarsi e capire a quali fonti fare riferimento”.